sabato 7 dicembre 2013

I MIEI CORSI



Da sempre mi immergo nel Mediterraneo per pescare e osservare. Da tre anni l'istinto venatorio sta scemando per lasciare lo spazio all'osservazione, studio e documentazione del mondo sommerso.

DA PANGEA A OGGI, I NUOVI OCEANI, IL MEDITERRANEO, LA VITA IN FONDO AL MARE,  PORTOFINO

DISPENSE 

di Sergio Sarigu

Elementi di geologia

L’energia interna e quella solare, che hanno da sempre alimentato il nostro pianeta, stimolano la sua perpetua trasformazione e gli permettono di ospitare la vita.
Le dimensioni della Terra erano come le attuali già 4,5 miliardi di anni fa, anche se le sue condizioni fisiche differivano notevolmente. In quell’epoca il pianeta si presentava come una sfera di magma ribollente sulla quale aleggiava un’atmosfera densa e calda, composta di vapore acqueo e gas nocivi. Da lì a poco quell’atmosfera iniziò a condensarsi e precipitare sotto forma di pioggia torrenziale. Fu un diluvio che perdurò migliaia di anni. La temperatura superficiale del pianeta si abbassò e si ebbe la formazione di una sottile crosta solida dalla morfologia accidentata nelle cui depressioni si accumularono le acque delle piogge millenarie. Si erano così formate le prime terre emerse, composte di rocce a composizione mineralogica uniforme, e i primi mari le cui acque erano dense, opache, calde e velenose. E’ verosimile che il ciclo delle acque, così come lo conosciamo oggi, sia iniziato da questo momento.
L’uniformità chimica e mineralogica delle prime rocce non durò tanto perché l’aggressività delle acque primordiali portò presto in soluzione i minerali più corrodibili cambiando, di fatto, il chimismo delle rocce originarie. I minerali messi in soluzione furono trasportati in luoghi lontani, dove precipitarono formando grandi depositi che in seguito diventarono nuove rocce. In seguito si ebbero altri processi chimico-fisici che portano alla differenziazione delle rocce. Oggi conosciamo centinaia di rocce che si sono formate sia per l’azione dell’acqua, sia per le dinamiche che avvengono all’interno e sulla superficie del nostro pianeta; queste afferiscono a quella che viene chiamata: tettonica a placche o a zolle.  Nello strato intermedio della Terra, il Mantello, si sviluppano moti convettivi che dal fondo dello strato, portano rocce semifuse verso l’alto, a contatto con la base della Crosta che è lo strato superficiale del pianeta. La Crosta è caratterizzata da uno spessore ridottissimo (7÷70 Km), una bassa temperatura e un’estrema fragilità, inoltre non è uniforme perché si distingue in oceanica (sottile, pesante e basica) e continentale (spessa, leggera e acida).  La roccia calda e semifusa in risalita, quando entra in contatto con la crosta si irradia orizzontalmente in tutte le direzioni. L’attrito che si genera tra la roccia semifusa in movimento e la crosta fredda e immobile mette in trazione quest’ultima fino alla sua lacerazione. Quando si formò la prima crosta solida, l’azione dei moti convettivi del Mantello era così diffusa che questa era separata in centinaia di micro placche (o zolle) che si muovevano reciprocamente a velocità misurabili in metri l’anno. Di queste antiche placche rimane solo un testimone in Africa, si tratta di un affioramento granitico datato 4 miliardi d’anni.
Oggi sappiamo che la crosta terrestre è divisa in dodici grandi placche e altre minori e che i confini delle placche non corrispondono a quelli delle terre emerse. Un continente, o una sua porzione, può far parte di una placca la quale può includere anche un oceano o parte di esso. Le placche non sono statiche, ma si muovono di moto reciproco: convergono, divergono o scorrono lateralmente.
Ora fermiamoci un attimo a pensare a quanto sia grande una placca, sicuramente diremmo: “accipicchia, ma è immensa” quindi proviamo a domandarci: “quanta forza è necessaria per muoverla?” Sicuramente ci perdiamo nel pensare a forze così spaventose. E’ vero, sono inimmaginabili, ma ci sono, quindi andiamo a vedere come possono agire e cosa possono provocare.
Quando due placche convergono possono portare allo scontro due continenti. Se questo avviene, i bordi che entrano in contatto si spezzano e si piegano per poi sollevarsi formando catene montuose il cui andamento segue pedissequamente l’iniziale linea di scontro. Una catena montuosa come le Alpi o l’Himalaya ci indica quindi che due placche si sono unite.
Quando invece i moti convettivi del Mantello inducono la divisione di una placca, si avrà un progressivo allontanamento delle due parti e lungo la linea di separazione s’imposterà una depressione che col procedere porterà alla formazione di un nuovo mare.
La tettonica a placche è in definitiva una impastatrice di terre e mari,  le sue dinamiche cambiando continuamente l’aspetto geomorfologico del pianeta, quindi modificano, inevitabilmente, anche il complesso degli ecosistemi in tutti i loro aspetti: ambientali e biologici.
Prima ho parlato della formazione di un nuovo mare a questo punto però sorge spontanea la domanda: “che differenza c’è tra mare e oceano?”.
Il mare che si genera tra le due nuove placche continua ad abbassarsi fino a batimetrie di -4000 mt, dopo di che nella sua parte più depressa inizia a formarsi un allineamento di vulcani via via sempre più numerosi. Questo allineamento prende il nome di dorsale medio oceanica e identifica quindi il confine delle due nuove placche. La presenza di una dorsale definisce un bacino di acqua salata con il nome di oceano.
Come già detto, nella formazione e nella direzione e verso del movimento delle placche c’è della casualità per cui un oceano si può aprire per poi richiudersi dopo un numero imprecisato di milioni d’anni. Anche le montagne non sono eterne, una volta formatesi, gli agenti atmosferici e la gravità pian piano le demoliscono. Le antiche catene montuose del passato oggi sono solo basse colline.
Il ciclo vitale degli oceani è confermato dalla loro datazione, infatti, la loro età massina non supera i 220 Ma (= Milioni di anni); “accidenti”, allora sorge spontanea la domanda: ”ma allora le acque marine e oceaniche sono più antiche dei bacini che le contengono?”. La risposta è si!!!
Questa casualità dei movimenti delle placche fa in modo che un continente che si trova a cavallo della linea equatoriale può, magari dopo 100 Ma, trovarsi coperto dai ghiacci polari o viceversa, come dimostrano i fossili di organismi equatoriali trovati in Antartide o le rocce lisciate dai ghiacciai in piena Africa tropicale.
Bene, accettata questa realtà, soffermiamoci a pensare a piante e animali, continentali e marini, che vivono su una placca in trasferimento dall’equatore al polo nord. Generazione dopo generazione, piante e animali sono costretti a vivere condizioni ambientali e climatiche completamente diverse da quelle di origine quindi si trovano a un bivio evolutivo, estinguersi o adattarsi.
Lo stesso riunirsi e dividersi delle terre emerse porta a variazioni importanti sugli ecosistemi del pianeta; terre emerse più frazionate determinano condizioni ambientali più numerose e diverse con moltiplicazione degli ecosistemi e quindi della biodiversità. Quando invece le terre si uniscono gli ecosistemi si riducono e trasformano.
Le estinzioni di massa avvenute sulla Terra sono legate profondamente alla tettonica a placche, alle conseguenti variazioni ecologiche cui sono sottoposte le specie animali e vegetali.
L’unione delle terre emerse in un unico super-continente è una possibilità che si è verificata almeno quattro volte nella storia del pianeta con una ciclicità di 440 milioni d’anni. Dopo un’unione si è avuta quindi una separazione in nuove placche e continenti con forme sempre diverse.
Queste informazioni non le abbiamo ottenute interrogando un cartomante, ma studiando rocce e fossili come se fossero il libro della storia cronologica del pianeta.
Il primo a formulare l’idea che le superficie del pianeta è mobile e che le terre emerse  una volta erano unite in un unico continente fu l’astronomo (meteorologo e fisico per passione) tedesco Alfred Wegner. In conformità a prove morfologiche, geologiche e paleontologiche, nel 1915 pubblico il saggio: “l’origine dei continenti e degli oceani”. Wegner aveva capito che la crosta terrestre era divisa in porzioni distinte e che queste si muovevano reciprocamente. Il suo errore fu di immaginare che fossero solo i continenti a spostarsi mentre invece, oggi sappiamo, che sono le placche o zolle a farlo.

Da Pangea a oggi

L’ultimo di questi super-continenti è stato chiamato Pangea. Le moderne testimonianze dicono che Pangea fu completata circa 250 milioni di anni fa, aveva la forma di un arco, con la concavità rivolta a Est, e si estendeva verticalmente tra i due poli.  All’interno di quest’arco si trovava il mare della Tetide sulle cui rive prosperavano immense barriere coralline poiché disposto a cavallo dell’equatore. Pangea era poi circondata da un unico e immenso oceano, Pantalassa. La riunione delle terre in Pangea portò alla formazione di ambienti molto aridi e all’evaporazione di molti mari. Si generarono così grandi depositi di sale che oggi si trovano in Inghilterra, Polonia e Germania. Questi depositi salini sono divisi in tre strati di diversa composizione; questa tripartizione ha attribuito il nome al primo periodo dell’Era Mesozoica cioè il Triassico. Queste trasformazioni climatiche portarono a una grande estinzione di massa. Sulla terra ferma sopravvissero gli animali di piccola taglia mentre nelle acque poco profonde e calde si mantennero e poi diffusero i grandi ittiosauri. Dopo l’estinzione di massa le terre emerse erano davvero disabitate quindi pronte a ospitare i prossimi abitatori del pianeta, i grandi dinosauri; questi occuparono tutti gli habitat, terrestri acquatici e aerei fino alla fine dell’Era mesozoica.

Pangea diventa instabile

All’incirca 230 Ma Pangea inizia a scomporsi in due grandi blocchi, Laurasia a Nord e Gondwana a Sud. Man mano che questi blocchi si allontanano tra essi si genera una depressione che presto si allaga generando un bacino marino che mette in contatto il mare della Tetide con l’oceano Pantalassa. La rottura si propaga a Est approfondendo il mare della Tetide. L’abbassamento prosegue fino alla formazione di una dorsale. Con questa divisione s’intravedono le prime fasi della formazione degli oceani Atlantico e Tetide.
Nel Giurassico 170 Ma Laurasia si divide ulteriormente perché quella che è l’attuale America del Nord si è staccata ed è ormai un’isola. L’America del sud è ancora legata a Gondwana, anche se le prime fratture s’intravvedono. Nel frattempo il blocco composto da Australia, Antartide e India si sta separando da Gondwana lungo una linea che in seguito diventerà l’oceano Indiano. Ciò che resta del Gondwana ruota in senso antiorario fino a scontrarsi con ciò che rimane di Laurasia. Questo movimento verso Nord chiude il giovane oceano della Tetide, il suo fondo si deforma in enormi pieghe e si spezza in grandi blocchi sotto gli sforzi tettonici. La riduzione del vecchio e profondo oceano di Pantalassa a favore dell’apertura di quelli nuovi non ancora approfonditi, induce un sollevamento delle acque. Le pianure e i bassipiani costieri si allagano diventando mari bassi e caldi. Questi sono ambienti ideali per lo sviluppo di una grande moltitudine di specie marine. Sono momenti di grandi variazioni del clima, la temperatura media del pianeta si alza favorendo lo scioglimento delle calotte polari inducendo un altro innalzamento del livello delle acque.
Nel Periodo successivo, il Cretaceo, (da 142 a 65 Ma) l’oceano Atlantico è completamento aperto e la sua la dorsale si espande fino quasi a toccare i due Poli opposti. L’Antartide, l’India e L’Australia si definiscono meglio come isole alla deriva, mentre l’Asia non è ancora riconoscibile perché mancano le parti meridionali. La Cina inizia a ingrandirsi; al momento è costituita da vaste aree pianeggianti e lussureggianti, dove pascolano i grandi dinosauri erbivori e cacciano quelli carnivori. Durante questo periodo le temperature si mantengono elevate favorendo la crescita di grandi foreste lungo la fascia intertropicale che, in seguito, determineranno la formazione di immensi depositi carboniferi che oggi ritroviamo a latitudini completamente diverse. Alla Fine del Cretaceo le terre emerse che costituiscono gli attuali continenti sono già separate e vagavano sotto forma di isole sotto le spinte  delle dorsali medio-oceaniche.
L’approfondimento dei nuovi oceani porta a un progressivo abbassamento del livello delle acque.
L’Era Terziaria inizia 65 Ma fa, in quegli anni le Americhe sono ormai lontane anche se separate tra loro, l’Europa è costituita da isole che cercano un’identità, mentre tra di esse insistono mari bassi e caldi. Da lì a poco però le condizioni ambientali mutano, le temperature si abbassano mettendo in crisi tutti gli ecosistemi. Il confine Cretaceo Terziario corrisponde quindi all’inizio di una grande estinzione di massa su tutto il pianeta. Molti scienziati dicono che questa estinzione sia stata causata dall’arrivo di un meteorite impattato nell’area dell’attuale Yucatan in Messico. A mio avviso questa teoria è poco convincente, personalmente sono favorevole alla teoria della variazione climatica. Infatti questo periodo di crisi, che ricordo, ha portato anche all’estinzione dei dinosauri, dura qualche milione d’anni, un periodo troppo lungo per giustificare la teoria del meteorite, per la quale l’estinzione si sarebbe consumata nel giro di pochi mesi.
L’abbassamento delle temperature di questo periodo porta anche alla formazione delle calotte polari e a un nuovo abbassamento delle acque ed è a questo punto che emergono ampie aree pianeggianti dell’America del Nord.
In questo periodo avviene la separazione tra l’Arabia e l’Africa, quindi l’apertura del Mar Rosso. L’abbassamento della temperatura porta a un clima più secco con la conseguente riduzione delle foreste pluviali, come testimoniano i ridotti  spessori degli strati carboniferi di quel periodo.
Sempre nell’Era Terziaria, nel Miocene, circa 34 Ma, la convergenza africana verso l’Europa determina la formazione delle Catene dei Carpazi e del Caucaso a Est e quella delle Alpi a Nord.
Le isole di Sardegna e Corsica si staccano dall’Europa per portarsi dove si trovano tuttora seguendo un movimento rotatorio iniziato 30 Ma e terminato 16 Ma. Lo spostamento corruga il fondo marino posto a oriente delle due isole che alla fine si solleva determinando la formazione del  primitivo Appennino settentrionale.
Le continue spinte africane verso Nord portano alla completa chiusura dell’oceano della Tetide e alla formazione del neo Mar Mediterraneo che si dispone lungo un asse Est-Ovest.
L’India che fino a questo momento era un’isola in movimento verso Nord si scontra finalmente con l’Asia formando la Catena Himalayana il cui sollevamento modificherà pesantemente il clima della regione originando quelli che oggi sono chiamati i monsoni del Sud-Est asiatico.
Nell’Era Quaternaria, che inizia 1,8 Ma fa le terre emerse sono disposte come le conosciamo oggi, le uniche differenze sono le linee di costa che variano in funzione dei periodi glaciali e interglaciali durante i quali si ha l’emersione e la successiva sommersione di vaste aree prossime alla costa. L’ultima glaciazione termina 10.000 anni fa e libera grandi aree dai ghiacci perenni.
In questo momento la superficie Terrestre è occupata per il 71% da oceani e mari e il restante 29% da terre emerse. Gli oceani sono cinque: Artico, Pacifico, Atlantico, Indiano e Antartico.

Conclusioni

In questo breve excursus abbiamo capito che terre e oceani sono in continuo divenire grazie al tempo e all’energia che ancora caratterizza il nostro pianeta. Noi non possiamo essere testimoni visivi di queste mutazioni a causa delle brevi vite, ma possiamo leggere la storia del nostro pianeta attraverso la geologia e la biologia degli organismi vivi e di quelli che ci hanno lasciato le loro testimonianze paleontologiche. Tempo, energia e vita sono elementi strettamente legati, anche se solo il tempo assoluto è un’entità illimitata. Questa certezza ci dovrebbe indurre a guardare le creature viventi con tenerezza.

L’oceano.

Come si forma un oceano

Quando una serie di risalite calde del Mantello si dispongono secondo una linea, che supponiamo attraversi un continente, questa diventa  il tracciato di una grande frattura. Con il passare dei milioni d’anni questo tracciato si solleva, spezzando e dividendo le rocce, e i due lembi che così si individuano iniziano ad allontanarsi reciprocamente. Man mano che l’allontanamento prosegue i bordi separati si abbassano fino all’ingressione di acque marine. Se l’abbassamento supera i - 3000 metri si forma una catenaria di grandi vulcani lungo la linea di separazione iniziale. Questo allineamento vulcanico prende il nome di dorsale oceanica

La forma dell’oceano

Se tagliassimo trasversalmente un oceano, otterremmo un profilo che assomiglia a quello di una vasca da bagno. Una vasca è caratterizzata da un bordino leggermente inclinato verso l’interno, una parete molto inclinata che si rastrema, con una ampia curva, al fondo la cui inclinazione è minima. L’oceano è chiaramente più complesso come vedremmo, ma in linea di massima corrisponde alla descrizione della vasca.
Dove le acque incontrano la terra ferma, inizia la piattaforma continentale che assomiglia molto al bordino della vasca.
Dopo la piattaforma, il fondo s’inabissa improvvisamente con una maggiore inclinazione con la scarpata continentale, come le pareti di una vasca da bagno. Le scarpate continentali sono molto vaste e quindi ricevono grandi quantità di sedimenti che nel tempo si accumulano e stratificano. La scarpata termina a profondità intorno ai 3000 metri con un raggio di curvatura molto ampio, dovuto all’accumulo dei sedimenti, che la raccorda con le piane abissali. Queste ultime si approfondiscono dolcemente verso batimetrie maggiori, né più né meno come il fondo di una vasca.
Qui le similitudini finiscono e possiamo quindi parlare pienamente delle peculiarità dell’oceano.

La zonazione degli oceanici

La zonazione degli oceani parte da una prima distinzione tra le aree del fondo dette bentoniche e le zone nel volume acqueo dette nectoniche o pelagiche.
Le zone bentoniche sono: intertidale (variazione di marea), neritica (fino a -200 mt), batiale (fino a -3000 mt), abissale (fino a -4000 mt) e adale (fino a -11000 mt).  Le zone nectoniche o pelagiche sono: fotica (fino a -200 mt), afotica (fino a -1000 mt), batipelagica (fino a -4000 mt), abissopelagica (fino a -11000 mt).
Oltre il 50% dell’intera superficie oceanica sta sotto i -3000 metri; qui la vita è davvero difficile, ma non impossibile. La temperatura si mantiene sempre sotto i 4°C e le pressioni sono enormi. Sono zone davvero inesplorate (se ne conosce meno dello 0,001%), ma ciò che conosciamo ci dice che anche in queste lande buie e desolate, esistono organismi che hanno trovato qui il loro habitat. L’oceano propone habitat piuttosto particolari: dorsali, canyon, montagne sommerse, vulcani, scogliere coralline a tutte le profondità e latitudine, oasi idrotermali, piane abissali e fosse oceaniche. Essendo questi, ambienti assai difficili, gli organismi che li abitano sono molto specializzati.
Dove non arriva la luce, i produttori primari, i vegetali, non esistono, la loro funzione è svolta dagli organismi chemio-autotrofi che riescono a produrre materia organica grazie all’energia emessa da sorgenti idrotermali. La maggior parte degli organismi è quindi eterotrofa la cui base trofica dipende dalla materia organica morta che arriva dalla superficie. Quando una balena muore, si adagia sul fondo per poi diventare fonte alimentare per molti organismi compresi i batteri decompositori. Dopo che tutta la materia organica è scomparsa, lo scheletro diventa base di appoggio di molti organismi che si fissano sul fondo. Gli organismi che popolano questi ambienti sono in parte dei fossili viventi e in parte sono stati selezionati dalla natura perché adatti a queste condizioni estreme.

Gli ambienti di un oceano

La piattaforma continentale

La piattaforma continentale è la parte sommersa che orla i continenti, ha una pendenza media di 0,1°, e termina a circa -200 metri. Costituisce il naturale prolungamento della terraferma essendo il vero bordo dei continenti, lo dimostrano gli incastri continentali che si mostrano più precisi lungo i profili delle piattaforme. L’ampiezza della piattaforma varia in funzione delle caratteristiche geo-morfologiche della costa. Senza dubbio questa è la parte sommersa più popolata dagli organismi marini anche perché solo qui arriva la luce solare.

La scogliera corallina

La scogliera corallina è un ambiente in perpetua trasformazione secondo leggi dipendenti dalla luce, dall’energia del moto ondoso e dalla continua attività dei suoi organismi costruttori, i polipi. Scogliera corallina è un termine generale che riassume quelli più specifici di: frangente, barriera e atollo. Il frangente si sviluppa in prossimità della costa e ne è l’estensione naturale. Gli inglesi chiamano questa formazione “franging reef” cioè, dove l’onda frange. La barriera è un frangente distante dalla costa al punto che tra queste si trova un canale navigabile. Una barriera corallina si sviluppa copiando fedelmente la linea di costa, come nel caso della grande barriera australiana. L’atollo è un anello corallino nel cui centro risiede una laguna. L’origine dell’atollo è stata proposta da Darwin durante il suo viaggio scientifico con la nave Beagle. L’atollo nasce come un frangente intorno ad un’isola vulcanica in subsidenza. Alla definitiva scomparsa dell’isola rimane il frangente coralligeno con al centro un bacino di acque basse, cioè una laguna.
I coralli, insieme alle alghe calcaree, formano una vera e propria scogliera per cui da qui in poi userò questo termine generico per indicare un corpo corallino sia esso frangente, barriera o atollo.
Anche il termine corallo è generico perché è inclusivo di esacorallo e ottocorallo.

Nascita di una scogliera corallina

Un ramo di corallo non è altro che un edificio dove vivono numerosi polipi; ne più ne meno di un grattacielo di New York dove vivono migliaia di persone. L’insieme dei coralli che forma una scogliera è quindi assimilabile a una grande megalopoli come Tokio o Città del Mexico.
Ma come nasce una scogliera corallina? Supponiamo che una eruzione vulcanica sottomarina formi una nuova isola. Sulle nuove rocce si poseranno larve (planule) di coralligene trasportate dalle correnti da cui si svilupperanno i primi rami di corallo fino alla formazione di una colonia. Le prime colonie s’impostano in zone profonde dove l’energia del moto ondoso è minore, dopo di che la colonia risale verso la superficie incontro a luce e sostanze organiche trasportate dalle correnti.

Com’è fatta una scogliera corallina

Una scogliera corallina è costituita da tre corpi principali l’avanscogliera, il nucleo o corpo di scogliera e il retroscogliera.
L’avanscogliera è rivolta verso le acque libere, dove le grandi onde oceaniche s’infrangono definendo un habitat ad alta energia. Con il loro impattare, le onde spezzano la parte sommitale dei coralli creando degli accumuli alla loro base. L’azione distruttrice delle onde è però propedeutica alla ricrescita e avanzamento degli stessi coralli durante la stagione di calma. Sembra assurdo, ma la scogliera corallina è tanto florida quanto più è esposta all’azione devastante delle onde.
Il nucleo è costituito dai coralli vivi che arrivano alla superficie, affiorando durante la bassa marea.
Nella zona di retroscogliera siamo in condizioni di bassa energia; qui si depositano le sabbie provenienti dalla terra ferma o dalla triturazione di pezzi di corallo dovuto al moto ondoso.
Queste sabbie se sottoposte all’azione trasportatrice del vento, possono anche costituire dune che si vanno a impostare dietro le spiagge. 
La forma dei coralli e la biocenosi dipendono dall’energia e illuminazione dell’ambiente. Nelle zone di massima energia e luce, i coralli avranno forme ramificate come le Acropore e saranno, in buona parte molli, mentre le zone meno idrodinamiche e buie, le forme saranno più fragili molto estese e separate per ricevere la maggior quantità di luce.

Le condizioni ambientali

Per una scogliera corallina sono vitali alcune condizioni ambientali.
La temperatura delle acque deve essere compresa tra i 23 e i 29 °C con una escursione notte giorno e stagionale ridottissima. Le acque devono essere limpide, ossigenate e bel illuminate, con una salinità intorno al 35/1000. L’illuminazione è così importante che durante il giorno i coralli crescono 14 volte più velocemente rispetto alla notte, così come quelli superficiali rispetto a quelli più profondi. Il motivo va ricercato nella presenza di alghe clorofilliane  simbiotiche con i polipi .
La giornata dei polipi è condizionata dalle maree, quei movimenti che coinvolgono una massa impressionante d’acqua. Durante le variazioni di marea lo spostamento orizzontale delle acque trasporta plancton e altro materiale organico utile per l’alimentazione dei polipi i quali estroflettono i tentacoli per catturare il cibo. Allo stesso modo le spugne convogliano l’acqua al loro interno  alla ricerca di sostanza organica. Durante i momenti di stanca della marea tutto si ferma, i coralli s’invaginano nei loro loculi e le spugne riducono la loro attività. Lo stato di salute di una scogliera corallina si evince anche dal colore dalla sabbia, il bianco indica abbondanza di coralli e conchiglie, quindi buona salute della scogliera, altri colori indicano sedimenti provenienti da terra e scogliera sofferente.

Chi fa parte di una scogliera corallina.

In una scogliera corallina coesistono: costruttori primari, costruttori secondari, abitatori, distruttori e detritivori.
I costruttori primari sono chiaramente i polipi e le alghe coralligene, quelli secondari sono gli organismi che producono le conchiglie. Gli abitatori sono tutti gli organismi bentonici, planctonici e nectonici che per tempi più o meno lunghi vivono in scogliera. I distruttori sono pesci, stelle e gasteropodi che si cibano di coralli. In questa categoria bisogna inserire anche le spugne che, grazie alla loro capacità di secernere liquidi acidi, scavano gallerie nei coralli vivi o morti per potervisi insediare. I detritivori setacciano il fondo alla ricerca si sostanze organiche; la loro azione è fondamentale per la compattazione del sedimento.
La densità della biomassa di una scogliera corallina è la più grande tra tutti gli ambienti marini.

La scarpata continentale

La scarpata  continentale è un pendio che collega la piattaforma continentale al fondale marino con una inclinazione media variabile tra 1° e 10°. Verso i - 2000 metri inizia il raccordo con le piane abissali che termina a -3000 m dove la pendenza torna a valori inferiori al grado. Tra queste due batimetrie si accumulano i sedimenti grossolani depositati dalle frane provenienti dalla piattaforma e dalla scarpata continentale.

I canyon

I canyon sono delle profonde incisioni in seno alle scarpate continentali. Si generano prevalentemente alla foce dei grandi fiumi. Sono importanti in quanto veicolano grandi quantità di sedimenti e acque superficiali verso le piane abissali. Sono un habitat importante per un grande numero di organismi.

Le piane abissali

Le piane abissali non sono lande monotone, ma la sede di catene montuose, vulcani e montagne isolate e dove si aprono grandi fratture, (faglie), che mettono in comunicazione le rocce calde del Mantello, con le acque fredde dell’oceano.

Le montagne

Le montagne sottomarine sono simili a quelle terrestri solo che non emergono a formare isole. Spesso sono raggruppate in vere e proprie catene montuose. Il loro numero è impressionante, solo nell’oceano Pacifico ne sono state individuate più di 50.000; alcune sono di origine vulcanica altre no.
Le scogliere coralline profonde si spingono fino a 7000 metri di fondo abbarbicandosi sulle montagne sommerse o dorsali oceaniche. Le loro comunità sono composte da gorgonie, spugne, anemoni, oloturie, idroidi, molluschi, crostacei, pesci, e echinodermi.

La dorsale oceanica

La dorsale oceanica è la colonna vertebrale dell’oceano, si eleva da un fondo di 5000 metri fino a 2500 metri, è composta da una catenaria di vulcani che, in tempi differenti, emettono lava proveniente dal Mantello. E’ disposta lungo l’asse longitudinale di ogni oceano ed è il confine divergente tra due placche tettoniche. Anche se l’attività dei suoi vulcani non è contemporanea, le cause che stanno alla base e gli effetti che sortiscono sono elementi comuni. Le rocce magmatiche che si formano lungo la dorsale sono i basalti a pillows, che si depositano accanto a: le metamorfiche provenienti dal Mantello attraverso le grandi faglie della crosta oceanica e le sedimentarie dovute alla litificazione dei fanghi provenienti dai continenti.
Nel fondo oceanico si formano la maggior parte delle nuove rocce magmatiche, metamorfiche e sedimentarie del pianeta.

Oasi idrotermali o vent

Le oasi idrotermali (o vent) sono emergenze di acque calde e ricche di minerali che s’impostano lungo una dorsale oceanica. Le acque possono raggiungere i 400°C, il loro Ph supera il valore 11 la salinità si ferma al 30% e sono ricche di minerali pesanti e gas spesso tossici. Sono acque d’infiltrazione che raggiungono gli strati inferiori prossimi alle camere magmatiche, qui si riscaldano e arricchiscono di gas e minerali. L’alta temperatura e la presenza di gas le fa risalire verso la superficie dove depositano calcite, brucite e aragonite creando camini di varie forma.
Da queste sorgenti o geyser fuoriescono metano e acido solfidrico che sono utilizzati da organismi chemio-autotrofi per generare materia organica. In questi ambienti si contano al momento 700 specie differenti.

Le fosse oceaniche o trunch

Le fosse oceaniche sono gli ambienti più profondi della Terra, possono arrivare a 11.000Km.
Sono i luoghi dove la crosta oceanica s’inabissa verso il Mantello. Qui la vita è rappresentata con  720 specie differenti. Di questi 660 sono bentonici e 58 nectonici in più, batteri e protozoi.

Le correnti oceaniche

Le correnti oceaniche sono assimilabili a grandi fiumi che si muovono a velocità che variano da 2 a 10 Km/h all’interno di acque ferme, differenziandosi per una diversa temperatura e salinità.
Esistono due tipi di corrente, quella superficiale e calda, e quella profonda e fredda. Queste correnti fanno parte di un unico circuito chiamato “nastro trasportatore oceanico” che percorre tutti gli oceani portando nutrienti dal fondo alla superficie e calore e ossigeno dalla superficie al fondo. La sua funzione vitale è quindi chiara, porta l’energia proveniente dal sole e l’ossigeno prodotto in superficie negli abissi e alimenta la catena trofica superficiale con i nutrienti abissali. L’acqua fredda dei poli s’inabissa e facendo da motore a tutta la circolazione, dopo di che si dirige verso le basse latitudini raccogliendo al suo passaggio i nutrienti residenti sul fondo.  In corrispondenza dell’Equatore è già calda per poter risalire e da qui si dirige verso i poli a riempire i vuoti creati dall’inabissamento iniziale; in questo modo si chiude in circuito nel giro di mille anni.
Se non ci fosse l’inabissamento ai poli il nastro trasportatore oceanico si fermerebbe, non ci sarebbe la ridistribuzione di nutrienti, ossigeno e energia, le acque si trasformerebbero in ambienti morti e la vita sulla Terra sarebbe in pericolo.

Il Mediterraneo

Generalità

I continenti rappresentano i confini dei grandi oceani, mentre isole e penisole delimitano alcune loro porzioni chiamate: mari mediterranei; il mar dei Caraibi e il mare del Giappone ne sono esempi. A dire il vero questi mari non sono altro che distaccamenti degli oceani cui sono adiacenti perché non si differenziano negli aspetti biologici e geologici. Chi fa la differenza è invece un altro mare, quello con la M maiuscola, il Mare Mediterraneo. Qui gli aspetti biologici geologici e climatici sono completamente differenti da quelli degli oceanici Atlantico e Indiano.

Storia

Come sappiamo, al tempo di Pangea, la Tetide era un mare caldo e ricco di scogliere coralline, poi il suo fondo si abbassò fino alla sua oceanizzazione. Un successivo riavvicinamento tra Laurasia e Gondwana, chiuse l’oceano della Tetide, tracciando la forma primordiale del Mediterraneo.
In quel periodo iniziò un riscaldamento globale del pianeta che portò a un innalzamento del livello delle acque. Fu così che si formarono bacini costieri poco profondi e caldi (simili a quelle che oggi sono presenti alle isole Maldive) dove ebbero modo di svilupparsi numerosissime specie di pesci, molluschi e coralli, come testimoniano i giacimenti fossili marini di Bolca, nel veronese, di 50 Ma.
Le attuali catene alpine europee iniziano il loro sollevamento 100 Ma per terminare 30 Ma
Intorno ai 30 Ma fa il blocco Sardo-Corso si staccò dall’Europa e dopo aver ruotato di 40° si andò a posizionare dove si trovano tutt’oggi. Questo movimento rotatorio verso Est provocò il corrugamento e innalzamento del fondo marino che emerse formando la primordiale dorsale dell’Appennino settentrionale. Gli Appennini meridionali si sollevarono più tardi, 7 Ma fa,  anche in questo caso a causa di spinte tettoniche verso Est.
Sempre nello stesso periodo, circa 6,5 Ma, lo spostamento dell’Africa verso Nord chiuse lo stretto di Gibilterra facendo sì che il Mediterraneo diventasse un mare chiuso.
La forte evaporazione non bilanciata dagli apporti di piogge e fiumi trasformò, con il passare dei secoli, il bacino del Mediterraneo in un deserto di grandi depositi salini alternati a lagune salate popolate da organismi particolari che si erano specializzati a vivere in condizioni di forte salinità e temperatura. L’apice di questa crisi si ebbe intorno ai 6 Ma fa quando i depositi di sali, detti anche evaporiti (solfati, salgemma, sali di potassio e gessi), arrivarono, in alcuni casi, a spessori di 2000 metri. La chiusura del Mediterraneo portò all’estinzione di quasi tutte le specie animali e vegetali marine, all’adattamento di quelle rimaste e all’affermazione di quelle nuove più adatte. Solo 5 Ma fa le acque atlantiche ricominciarono ad affluire nel Mediterraneo. Per cause non del tutto chiare (forse un sisma che fece crollare il diaframma di Gibilterra), una grande cascata di acque oceaniche si riversò nel bacino del Mediterraneo ormai moribondo. Una cascata impressionante che durò qualche migliaio d’anni e che abbassò il livello degli oceani di circa 15 metri. Le acque atlantiche ripristinarono le precedenti condizioni ambientali e portarono nuove specie che andarono a sostituirsi a quelle alofile delle lagune iperaline. I periodi glaciali che iniziarono circa 2 Ma fa portarono a fluttuazioni del livello delle acque con valori tra + 90 metri a -120 metri. Questo fenomeno portò alla formazione di spiagge in tempi diversi disposte su più livelli. Queste antiche spiagge si sono poi litificate (chiamate anche Beach Rock), ed oggi le troviamo sia in ampie are sommerse sia in ambienti subaerei prospicenti la linea di costa. Sulle alture di Arenzano è frequente incontrare i ciottoli appartenenti a quelle antiche spiagge.
I periodi glaciali condizionarono fortemente la biologia subacquea e subaerea, proprio mentre i nostri lontanissimi antenati si stavano preparando a dominare il mondo.

Come è fatto e i suoi numeri

Il Mediterraneo è un bacino semichiuso con due piccole aperture: Stretto di Gibilterra e canale di Suez. La sua superficie è di 2,5 milioni di Km2, per un volume di 3.750.000 Km3, larghezza massima di 3700 Km, sviluppo costiero di 46.000Km, profondità massima 5270 mt, media 1500 mt, salinità 36‰ ÷ 39‰, temperatura 10 °C ÷ 32 °C. La popolazione degli Stati che in esso si affacciano è di 450 Milioni, di cui 130 M. sulla costa, di tre continenti diversi: Europa, Asia e Africa. In esso navigano circa 200.000 navi all’anno.
Se svuotassimo il nostro mare vedremmo che il suo fondo è caratterizzato da due morfologie ben distinte, il cui confine corre lungo il Canale di Sicilia. A Est abbiamo un fondo molto travagliato residuo dell’antico oceano della Tetide dove grandi blocchi sovrapposti si alternano a sistemi di pieghe chilometriche che testimoniano quanto erano potenti le spinte africane contro l’Europa. A ovest il fondo è più tranquillo, qui si stendono grandi piane abissali piuttosto monotone causate da tentativi di apertura oceanica poi abortiti. Le piattaforme continentali che orlano il Mediterraneo sono molto strette con la sola eccezione di quella del Mar Adriatico.
Il  Mediterraneo è in deficit acqueo a causa di una forte evaporazione, un ridotto apporto di acque dolci fluviali e per un’intensa  attività umana, con costruzione di dighe e sbarramenti.
Nei mesi estivi l'evaporazione è relativamente ridotta a causa dei venti rari e deboli, al contrario nei mesi invernali l'evaporazione aumenta a causa dei venti secchi provenienti da Nord. Il deficit viene comunque compensato da apporti atlantici pari a 38 000 k all’anno. L’apporto di grandi quantità d'acqua provoca forti correnti durante tutto l'anno, favorendo la pulizia dei bassi fondali di Gibilterra che, altrimenti, si sarebbe inevitabilmente chiuso. Il tasso di evaporazione è più forte a oriente e questo fenomeno unito agli apporti atlantici a occidente fa sì che il Mediterraneo sia un mare inclinato dove la parte più alta la troviamo a Ovest, quella più bassa a Est.
Se rispetto a Suez, Gibilterra può sembrare grande, in valore assoluto è soltanto un forellino che collega un grande oceano con un grande mare, inoltre, quelle che entrano nel Mediterraneo sono le acque superficiali calde e più leggere, con una salinità inferiore al 36 0/00. Le acque abissali oceaniche con temperature intorno ai 2°C non entrano mai nel Mediterraneo ed è per questo motivo che, anche nei recessi più profondi del Mare Nostrum, la temperatura non va mai al di sotto dei 12°C. Questa condizione termica fa del Mediterraneo una grande borsa dell’acqua calda che sta alla base dello splendido clima  che si gode sulle sue rive. Queste condizioni favorevoli hanno facilitato il sorgere e progredire delle prime civiltà organizzate dell’uomo, e allo sviluppo di ecosistemi con unicità biologiche e ambientali.

Le correnti marine

La circolazione delle acque mediterranee è condizionata dal continuo apporto di acque oceaniche che entrano attraverso lo stretto di Gibilterra. Queste si dirigono verso Est lambendo le coste nord-africane fino a raggiungere le coste medio-orientali per poi dirigersi verso Nord. Incontrando le coste turche, il residuo di corrente, si dirige a ovest verso la Grecia e l’Italia dove, esaurite le spinte, si immerge appesantita dalla salinità che è aumentata per la forte evaporazione.
Altri sprofondamenti di acque si hanno durante l’inverno, quando le acque superficiali si raffreddano e appesantiscono.  Ogni sprofondamento è propedeutico a una risalita di acque dal fondo che arrivano su accompagnate dal loro bagaglio di nutrienti così importante per i produttori primari.

Il clima

Il clima di gran parte dei paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo è caratterizzato da estati calde e asciutte e autunni e inverni miti e piovosi. Le correnti marine influenzano notevolmente il clima perché trasportano acque più calde rispetto alla latitudine cui si trovano, inoltre la vicinanza del tropico permette nei periodi estivi la permanenza di masse di aria calda e secca. L’energia termica accumulata durante i mesi estivi è rilasciata in quelli invernali di modo che l’escursione termica tra le stagioni sia minore di 20°C

Gli aspetti biologici

Il Mediterraneo è un mare ad alta concentrazione di specie viventi, infatti, a fronte di un’estensione dell’1% della superficie totale delle acque contiene il 7,5% della biodiversità sommersa mondiale.
Ad oggi in Mediterraneo vivono circa 600 specie di pesci ossei, 21 di mammiferi, 84 di pesci cartilaginei, 5 di tartarughe e 1300 di alghe. Questa biodiversità è in continua espansione grazie all’arrivo di organismi provenienti dal Mar Rosso e dall’oceano Atlantico. Anche le acque di zavorra delle grandi navi mercantili contribuiscono a importare specie aliene. Il Canale di Suez fu inaugurato nel 1869 e per molti anni non funzionò come collegamento biologico per le sue acque iperaline, solo nel 1902 fu segnalato l’arrivo della prima specie del Mar Rosso nel Mediterraneo. Attualmente sono state riconosciute 120 specie di provenienza extra mediterranea. A questi ingressi fortuiti si aggiungono le specie introdotte a scopi commerciali che in alcuni casi stanno soppiantando le specie autoctone, vedi il caso delle vongole veraci soppiantate da quelle giapponesi in Adriatico. In alcuni casi le specie aliene diventano invasive e dannose grazie all’adattabilità e la mancanza di predatori specifici. E’ questo il caso delle alghe Caulerpa che, sfuggita dagli acquari di Monte Carlo, ha invaso la maggior parte degli habitat del Mediterraneo fino a grandi profondità.

Le grandi civiltà

Il Mediterraneo è stato il palcoscenico di alcune tra le più antiche civiltà del Pianeta, quelle che hanno caratterizzato la storia e la cultura delle popolazioni occidentale e medio-orientale. L'agricoltura insieme all'allevamento si diffusero in prossimità delle sue coste intorno al 6000 a.C.  e qui nacquero aree urbane caratterizzate da fiorenti attività artigianali e commerciali. Nel 3000 a.C. fece la sua comparsa la grande civiltà egiziana, seguita, tra il III e il II millennio a.C.,  quella minoico-micenea sorta nell’isola di Creta. Dall’isola s'irradiarono intensi flussi commerciali che interessarono le coste anatoliche, la Grecia, l'Egitto, il Libano, l'Italia Meridionale, la Sicilia e la Sardegna, contribuendo a intensificare i rapporti culturali tra i tanti popoli rivieraschi. Dopo il 1200 a.C. si espandette la civiltà fenicia che a causa delle spinte delle popolazioni occidentali medio-orientali, svilupparono l’abilità alla navigazione e ai commerci. Sono stati i Fenici a creare città costiere come Cartagine, Caralis, Mozia... Nell'VII secolo ai Fenici si affiancarono i Greci che impiantarono colonie nel bacino ionico. La concorrenza commerciale portò presto ad attriti che sfociarono in una guerra con i Fenici che i Greci persero nel 541 a.C.  nella battaglia del Mare sardo contro l’alleanza tra Etruschi e Cartaginesi.
Le nascenti potenze di Roma e Cartagine sconvolsero nuovamente il Mediterraneo e dopo lunghe guerre Roma si impose. Da allora in poi il Mediterraneo divenne per i Romani il Mare nostrum e su tutto il suo bacino si irradiò la civiltà e la potenza della Roma repubblicana e imperiale. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente e la stagnazione dei commerci nel bacino occidentale, nell'Impero romano d'Oriente i Bizantini mantennero intensi i traffici marittimi fino a quando nel VII e nell'VIII secolo l'espansione islamica sconvolse nuovamente l'intero bacino.
Le Repubbliche marinare di Amalfi, Venezia, Pisa e Genova, contrastarono efficacemente questa espansione perché i loro interessi commerciali in Oriente erano minacciati dai pirati saraceni.

La vita in fondo al mare

Fino a poco tempo fa le immersioni in mare erano finalizzate quasi esclusivamente ai lavori subacquei, a scopi militari e alla pesca sportiva. La ricerca scientifica ha assunto un peso significativo solo nella seconda metà del secolo scorso. Documentaristi come il nostro Folco Quilici e il francese Cousteau divulgando le loro esplorazioni e ricerche portarono a conoscenza di milioni di persone le loro scoperte di biologia marina, antropologia e archeologia.
Oggi le immersioni dedicate alla pesca si stanno riducendo a favore di quelle dedicate all’osservazione o snorkeling, che è praticato per conoscere e fotografare l’ambiente marino e i suoi abitanti. In prima battuta l’attenzione è attratta dai pesci perché si muovono e sono colorati, poi si rivolge a tutti gli organismi che vivono in prossimità fondo. Il passo successivo è tentare di capire che cosa sono e come vivono gli organismi marini, in altre parole, conoscere la vita in fondo al mare.

L’inizio della vita sul pianeta

Le uniche informazioni tangibili che possediamo riguardo ai primi momenti della vita sul pianeta dicono che questa è iniziata in un ambiente sommerso. Se avessimo la possibilità di andare a ritroso nel tempo per oltre tre miliardi d’anni ci troveremmo in un ambiente caldo, umido e soffocante. I vulcani in attività sarebbero una presenza normale e nelle depressioni stagnerebbero acque calde, torbide e ricche di elementi chimici. In qualche modo questi elementi disciolti nell’acqua si sono uniti per formare molecole organiche complesse come gli amminoacidi e i nucleotidi, molecole che costituiscono gli elementi base della vita. L’esperimento di Miller conferma che questa possibilità c’è stata nelle condizioni ambientali che vigevano sulla terra almeno tra i 4,4 e i 2,7 miliardi di anni date che vanno dalla presenza della prima acqua all’evidenza chimico-paleontologica delle prime alghe procariote.
Quanti tentativi sono abortiti prima di ottenere le prime cellule procariote (prive di nucleo e con DNA disperso nel citoplasma)?. Dopo di che, quanti altri tentativi sono stati necessari affinché altre cellule procariote come mitocondri (respirazione cellulare) e cloroplasti (funzioni fotosintetiche), entrassero fisicamente nella cellula primordiale (endocitosi), ed anche il DNA disperso avesse la sua membrana nucleare e avvenissero le prime reazioni fotosintetiche di una cellula eucariota? Miliardi!
Le prime cellule procariote popolarono le acque calde e riparate di ambienti antichi più di 3,5 miliardi d’anni, erano cianobatteri o alghe azzurre che si spandevano sul fondo come tappeti molli che poi si ricoprivano di sedimenti fini dopo di che altri tappetti e altri sedimenti si sovrapponevano a formare un sandwich che alla fine diventava una grande struttura mammellonare, quelle che oggi sono chiamate: stromatoliti. Dai cianobatteri procarioti l’evoluzione portò alle prime cellule eucariote che subito si differenziarono in animali e vegetali; da queste l’evoluzione  iniziò a giocare il suo ruolo per diversificare e scegliere quelle più adatte a sopravvivere. Dalle prime stromatoliti a noi quante specie animali e vegetali si sono alternate nell’abitare questo pianeta? Non lo sapremmo mai, alcune di queste ci hanno lasciato testimonianze paleontologiche, ma i processi di fossilizzazione sono miracoli veri e propri; per questo motivo il numero di organismi del passato che conosciamo sono solo una goccia di un vasto oceano. Le stromatoliti vivono ancora oggi in tre soli posti al mondo.

Ecosistema

Un ecosistema è costituito da una biocenosi e un biotopo. La biocenosi è l’insieme d’individui di specie diverse aventi esigenze ambientali identiche, che coesistono e si riproducono in uno spazio comune avente parametri ambientali omogenei chiamato biotopo. Un ecosistema può contenere una o più biocenosi e/o biotopi, le sue dimensioni variano dall’interezza del pianeta alla scogliera mediterranea, per esempio.
L’energia a disposizione per gli organismi marini è, per la maggior parte, quella solare cui si aggiunge quella meccanica dovuta ai movimenti delle acque (correnti, maree e moto ondoso). L’energia solare è utilizzata dagli organismi autotrofi (vegetali), insieme con anidride carbonica e acqua, per generare quei legami chimici che uniscono gli atomi e molecole semplici dei nutrienti in molecole complesse proprie della sostanza organica vegetale. Quest’ultima è utilizzata come alimento dagli organismi eterotrofi, cioè quegli organismi che costituiscono i livelli superiori della catena alimentare. I legami che insistono tra autotrofi ed eterotrofi sono schematizzati dalla piramide trofica o catena alimentare, alla cui base stanno gli organismi autotrofi e a seguire gli eterotrofi erbivori, detti consumatori primari, per terminare con quelli carnivori detti consumatori secondari, terziari e quaternari. All’interno di una biocenosi possono coesistere più catene alimentari, in questo caso si parla di rete alimentare. Gli organismi di tutti i livelli trofici: vegetali, erbivori e carnivori, una volta morti, sono intercettati dai batteri decompositori che disfanno le loro molecole complesse in ossidi semplici e/o minerali. Questi sono i nutrienti che saranno utilizzati dalle prossime generazioni di vegetali per ricostituire nuova sostanza organica vivente. I batteri decompositori chiudono quindi il ciclo alimentare.
Il biotopo può essere una scogliera corallina, una piana abissale, una dorsale medio-oceanica.
In natura un ecosistema trova sempre l’equilibrio tra le necessità della biocenosi e le possibilità del biotopo.  Questo equilibrio può subire modificazioni naturali o antropiche. Una variazione climatica che si protrae per decenni o l’immissione d’inquinanti causata dall’uomo sono solo due esempi di cause che possono destabilizzare un delicato equilibrio ecologico. Anche in questi casi la natura tenderà a ritornare in equilibrio eliminando le specie inadatte (selezione naturale), adattando le vecchie specie (relitti) e immettendone di nuove nello stesso biotopo. 
Anche nell’ambiente marino ogni singolo vegetale o animale è un elemento dell’ecosistema, dove i rapporti sono regolati dalla catena trofica e dal metabolismo di ognuno di essi; gli organismi si relazionano con quelli della stessa specie e con pochi altri.
I rapporti all’interno di una specie sono legati al mantenimento della stessa specie e alla distribuzione territoriale, per la quale ogni individuo deve avere il suo spazio vitale. Per esempio, quando un animale è ferito, emana delle sostanze che avvertono i suoi simili di un pericolo; oppure quando i pesci si muovono in banchi i soggetti deboli o ammalati sono posti all’esterno alla mercé dei predatori. In questo modo si eliminano i soggetti deboli e si mantengono quelli sani, potenzialmente utili per migliorare la specie. Altre volte i rapporti tra elementi di una stessa specie possono essere di raggruppamento stagionale, legati alla riproduzione o alla transumanza (vedi anguille e salmoni), o anche conflittuali, se dovessero sussistere, per esempio, problemi di confini o di accoppiamento.

Condizioni per la vita nell’acqua
La vita acquatica ha condizioni e vincoli molto diversi da quella terrestre per cui gli organismi marini adottano strategie specifiche per vivere, alimentarsi e riprodursi, per tutto ciò devono tenere conto delle condizioni fisico-biologiche dell’ambiente acquatico.

Condizioni fisiche dell’ambiente marino

Salinità, temperatura, … sono alcune delle caratteristiche fisiche delle acque e sono talmente importanti da condizionare un ecosistema.

Temperatura

Le temperature più basse (-2°C) delle acque marine si trovano ai Poli e negli abissi, mentre quelle più alte (+32°C) si riscontrano nella fascia equatoriale. Il salto termico massimo è quindi di 34°C, un valore molto più basso di quello terrestre che è di 135°C (da -80°C a +55°C).
La temperatura è condizionata da latitudine, profondità, dai rimescolamenti provocati da correnti, moto ondoso e dai cicli stagionali. Sono proprio questi movimenti che, rimescolando acque a diversa temperatura, riducono il loro salto termico. La variazione della temperatura al variare della profondità non è costane, vi è una quota detta termoclino, oltre la quale si ha una brusca variazione della temperatura. La quota del termoclino si stabilizza intorno ai -500 m negli oceani e ai -25 m nei mari. Chiaramente, al di sopra del termoclino si stabiliscono gli organismi adatti ad ambienti caldi, al di sotto quelli adatti agli ambienti freddi. Gli organismi marini manifestano una diversa adattabilità alle variazioni termiche. Alcuni hanno una regolazione interna che permette di adattarsi meglio (come i mammiferi ritornati al mare dopo una parentesi terrestre), altri invece assumono come temperature corporee quelle dell’ambiente; questi soffrono più o meno pesantemente le variazioni termiche. La temperatura è uno dei fattori più importanti per la distribuzione delle specie.

Salinità

La presenza dei sali nelle acque marine è dovuta alle prime fasi della formazione della Terra, quando fluidi molto aggressivi hanno sottratto grandi quantità di sali alle rocce per portarli in soluzione. I sali contenuti negli attuali oceani e mari sono ancora quelli primordiali.
La salinità delle acque marine è mediamente intorno al 35 °/oo  cioè 35 gr di minerali disciolti in un litro d’acqua. Chiaramente questo valore diminuisce in corrispondenza della foce dei fiumi o nei pressi  delle calotte polari, dove si ha lo scioglimento dei ghiacci. Alcuni organismi mal sopportano le variazioni della salinità, altri, al contrario, si adattano splendidamente come muggini e spigole che frequentano normalmente le foci dei fiumi, ancora meglio fanno anguille e salmoni che vivono indifferentemente in acque dolci o salate seguendo il loro ciclo vitale.
Ciò è dovuto al fatto che la concentrazione salina nei liquidi interni degli organismi marini può essere uguale, maggiore o minore rispetto a quella esterna. I pesci ossei hanno una concentrazione salina interna inferiore a quella esterna quindi sopravvivono eliminando la quantità di sali in eccesso provenienti dall’esterno. I pesci cartilaginei invece si possono muovere in ambienti con diverse concentrazioni saline in quanto il loro contenuto in sali interno non ne è influenzato. Altri organismi, se spostati in ambienti a salinità diversa da quella ideale, muoiono.
L’uomo si è sempre posto la domanda del perché l’acqua dei mari fosse salata e non avendo risposte dalla scienza inventò risposte metafisiche che tanto piacevano ai piccoli e ai semplici; riporto due di queste leggende.
Leggenda nordica
Tanto tempo fa, nel reame di Danimarca, c’erano due macine magiche che erano in grado di produrre tutto ciò che si desiderava ma erano così grandi che non esistevano uomini o animali in grado di farle funzionare. Il Re dopo anni di ricerche venne a sapere dell’esistenza di due gigantesse così grandi e così forti che avrebbero potuto muovere le macine. Convintele a lavorare per lui, il Re avviò la produzione di oro, pietre preziose, felicità e pace. Dopo un po’ di tempo le gigantesse stanche chiesero al Re di riposare. Il Re non glielo concesse, allora le gigantesse istituirono un nuovo Re e un esercito che alla fine sconfisse il precedente monarca. Il nuovo Re, dopo averle fatte riposare, chiese loro di produrre il sale per pagare i soldati. Esse produssero così tanto sale che, caricato sulle navi insieme a Re e soldati, le fecero affondare. Rimaste sole le gigantesse continuarono a produrre il sale e riversarlo in mare perché nessuno poteva dire loro di smettere. Per questo motivo il mare è così salato.
Leggenda africana
Il Dio venerato in Marocco creò la Terra con le sue creature, le montagne e il mare. In quei tempi l’acqua del mare era dolce, fresca e azzurra. Avendo coscienza della sua bellezza il mare divenne presuntuoso al punto di voler eliminare tutte le creature che non riteneva belle come lui. Il Dio del Marocco venne a sapere delle intenzioni del mare e per punirlo inviò nuvole di mosche a ingoiarlo. Capita la fine che avrebbe fatto, il mare si pentì e chiese al Dio di perdonarlo. Il Dio perdonò e così le mosche vomitarono le acque che avevano bevute. Ecco perché le acque marine hanno gusto amarognolo e salato.

I gas disciolti

I gas più importanti per la vita sono l’ossigeno O2 e l’anidride carbonica CO2 che come sappiamo sono legati alla respirazione e alla fotosintesi clorofilliana. Sott’acqua, tutto l’ossigeno è prodotto entro la zona fotica (illuminata) e da qui si trasferisce lungo la colonna d’acqua per mezzo del moto ondoso e delle correnti verticali. Se non ci fossero questi rimescolamenti, gli ambienti basali potrebbero rimanere senza ossigeno. Gli organismi marini hanno dovuto “inventarsi” sistemi più o meno sofisticati per poter prelevare l’ossigeno dalle acque e versarvi l’anidride carbonica.
Una grande quantità di CO2 e immessa nelle acque anche dai vulcani e geyser sottomarini.

I nutrienti

Un organismo morto e gli escrementi di quelli vivi si alterano e producono grandi quantità di nitrati, questi sono aggrediti dai batteri decompositori che li trasformano in nitriti i quali, insieme con altri sali inorganici, forniscono i nutrienti necessari a piante e alghe che li utilizzano per la produzione di materia organica. Parte dei nutrienti provengono dalle terre emerse nella forma di sedimenti e rifiuti di origine umana. Quando la quantità dei nutrienti supera il fabbisogno dell’ambiente è possibile che alcune specie vegetali si sviluppino in modo esagerato destabilizzando così l’equilibrio. Il nuovo disequilibrio prende il nome di eutrofizzazione.

La luce

La luce è un fattore fisico discriminante per la vita subacquea; è l’elemento fondamentale per la fotosintesi clorofilliana, quindi per la presenza dei vegetali. Al di sotto dei 100 metri o all’interno di grotte profonde, i vegetali non sono più presenti. Man mano che i raggi solari s’inoltrano in profondità perdono le loro componenti cromatiche.  Il rosso scompare già nei primi metri, poi il giallo e a seguire il verde e il blu e per ultimo il violetto. Nella colonna d’acqua si riconosce una zona fotica fintanto che si ha un barlume di luce, dopo di che si entra nella zona afotica. Nello strato superficiale illuminato si trovano i grandi pascoli del fitoplancton o produttori che alimentano branchi di microscopici gamberetti, il primo livello dei consumatori.
Nella zona afotica la produzione dei nutrienti è svolta solo dagli organismi chemio-sintetici, per il resto dipende dagli apporti provenienti dalla zona fotica.

La profondità e la pressione

In ambiente subacqueo la pressione varia rapidamente e presto raggiunge valori molto importanti. Gli organismi si dividono tra chi è in grado di vivere in ambienti a profondità molto diverse e chi è costretto a starsene in una fascia batimetrica più ristretta. I mammiferi marini sono in grado di immergersi a grandissime profondità per poi risalire velocemente, mentre una cernia se vuole risalire di una decina di metri lo deve fare molto lentamente perché ha difficoltà a svuotare la vescica natatoria. È chiaro che tutti quegli organismi che vivono in stretta relazione con il fondo (benthos) saranno i meno adatti alle variazioni batimetriche, mentre quelli che frequentano le acque libere lo saranno di più.

Le dinamiche delle acque marine e oceaniche

Le acque non sono mai quiete perché soggette a forze, esterne e interne, che impongono loro movimenti verticali e orizzontali, che posso essere continui o periodici. Le cause dei movimenti continui vanno ricercate nel vento (per i movimenti orizzontali), nella temperatura e salinità delle acque (nastro trasportatore oceanico), mentre per i movimenti periodici sono importanti le maree e le stagioni. Il vento soffiando sulla superficie delle acque genera le onde che si muovono nella sua stessa direzione. Il movimento perdura per lunghe distanze anche dove il vento non è più influente.
Le maree sono dovute alle attrazioni che s’innescano tra Terra, Sole e Luna. L’intensità delle maree è in stretta relazione con le posizioni reciproche di questi tre corpi celesti. Il livello delle acque può variare di metri negli oceani e di decine di centimetri nei mari chiusi come il Mediterraneo. Il movimento delle acque produce come effetti il livellamento delle temperature, circolazione dei nutrienti e ossigeno e la ridistribuzione dell’energia solare.

Condizioni biologiche dell’ambiente marino

Lo spazio vitale

Abbiamo già visto che lo spazio vitale è fondamentale per gli organismi in grado di muoversi, ma ciò è ancora più vero per chi è ancorato al fondo come le spugne e i coralli. Per questi organismi sono importanti le condizioni fisiche dell’ambiente come l’illuminazione, la profondità, la temperatura… Quindi ogni specie si ritaglia un posto dove queste condizioni sono le migliori per la sopravvivenza; per far ciò dovrà lottare o mediare con le altre specie idonee a quelle stesse condizioni. Quando si hanno più specie in competizione, ognuna di esse cerca di conquistare il luogo dalle condizioni migliori, dopo di che andranno a essere occupate nicchie a livello ambientale inferiore, fino a trovare la propria nicchia ecologica.

La catena alimentare

La catena alimentare può esistere quasi esclusivamente grazie ai nutrienti messi a disposizione dai batteri decompositori per gli organismi autotrofi. In un ecosistema equilibrato le risorse alimentari sono adeguate alle necessità trofiche della biocenosi.
C’è un ambiente, il Vent, che s’imposta solitamente nelle dorsali oceaniche dove non arriva la luce solare, qui si ha la presenza di camini dai quali fuoriescono fluidi idrotermali ricchi di minerali. I Vent sono ambienti ricchi di vita pur non essendo illuminato. Questo miracolo avviene per la presenza di organismi chemio-autotrofi che utilizzano le sostanze minerali dei fluidi idrotermali per produrre sostanza organica.

L’importanza delle correnti per la catena alimentare

In ambiente subaereo l’azione batterica avviene nel terreno in aderenza alle radici dei vegetali che sono pronte ad assimilare i nutrienti, una sorta di spesa a Km 0. In mare e negli oceani invece tra l’azione batterica avviene sul fondo mentre l’utilizzo dei nutrienti da parte del fitoplancton in superficie fin dove arriva la luce solare, cioè a distanze che a volte chilometriche. Nelle acque lo scambio tra nutrienti e utilizzatori avviene per mezzo delle correnti profonde e per miscelazione delle acque per tempeste e mareggiate. D’estate le acque superficiali si scaldano e si alleggeriscono rispetto a quelle profonde e lo scambio di acque tra il fondo e la superficie è bloccato. In inverno avviene il contrario, le acque superficiali si raffreddano e si appesantiscono per cui s’immergono e fanno risalire quelle profonde grazie ai moti convettivi. In questo modo le acque profonde risalgono in superficie ed essendo cariche di nutrienti possono alimentare il fitoplancton. Le mareggiate che caratterizzano il paesaggio marino invernale contribuiscono anch’esse al rimescolamento delle acque (azione meccanica). Durante i mesi di dicembre, gennaio e febbraio le acque superficiali sono dense di nutrienti ed ecco quindi ad aprile lo sviluppo esponenziale del fitoplancton e a distanza di due mesi, a giugno, quello dello zooplancton. Ad agosto il fitoplancton è ridotto al minimo, lo zooplancton è in forte riduzione mentre la temperatura dell’acqua raggiunge i suoi valori massimi.

Le simbiosi

In alcuni casi i rapporti tra specie sono molto stretti per cui si parla di relazioni simbiotiche. Questi rapporti hanno diversi gradi di relazione che possiamo distinguere in commensalismo, mutualismo e parassitismo. Ci sono dei gamberetti che vivono in stretta relazione con le murene, puliscono loro le fauci mangiando i residui delle prede in un perfetto rapporto di commensalismo. Alcune attinie si abbarbicano sulle conchiglie abitate dai paguri per essere trasportate luoghi dove trovare nutrimento, nel frattempo difendono lo stesso paguro tramite alcuni filamenti urticanti, le aconzie, tutto ciò in un perfetto rapporto di mutualismo. Il parassitismo è un rapporto viziato da un disequilibrio tra il dare e l’avere, ma non porta quasi mai al decesso di uno dei due partecipanti. Ne sono esempio alcuni vermi che s’instaurano nei corpi di pesci spada, tonni o acciughe.

La predazione

La predazione potrebbe essere vista come un qualche cosa di terribile, ma è solo il modo in cui si mantiene l’equilibrio ecologico. I predati solitamente sono gli elementi più deboli o i meno adatti a quell’ambiente. Attraverso la predazione si regolano i rapporti numerici tra carnivori ed erbivori e tra questi e i vegetali, in altre parole, la predazione è il mezzo attraverso il quale si arriva all’equilibrio dell’ecosistema e da continuità alla selezione naturale.

Il metabolismo, come “funzionano” gli organismi marini

Come respirano

La respirazione avviene per il passaggio di ossigeno e anidride carbonica tra un organismo e l’ambiente: il trasferimento avviene attraverso membrane semipermeabili con un processo chiamato osmosi. L’ossigeno attraversa la membrana dall’esterno verso l’interno perché la sua pressione parziale nelle acque è maggiore di quella presente nel sangue dell’organismo. Il contrario avviene per l’anidride carbonica che attraversa la membrana dall’interno verso l’esterno perché la sua pressione nel sangue è maggiore di quella delle acque.  Nei piccoli organismi marini, o in quelli più bassi nella scala evolutiva, la respirazione avviene, sempre tramite osmosi, attraverso l’epitelio esterno, mentre negli organismi più complessi la respirazione avviene in tre momenti, il primo è tra l’esterno e gli organi interni, il secondo è osmotico, tra gli organi interni e i liquidi organici e il terzo, sempre osmotico, tra questi ultimi e le singole cellule.
Nelle spugne e nei celenterati la respirazione è solo osmotica attraverso le membrane delle cellule epiteliali. Molti organismi sono dotati di branchie sulle quali si sviluppa la membrana osmotica che appare rossa perché fortemente vascolarizzata. Qui avviene il primo scambio osmotico. Le branchie si trovano subito dietro la bocca da cui entra l’acqua che viene aspirata dal movimento dell’opercolo che aprendosi e chiudendosi crea una corrente che va dalla bocca alle branchie. Altri pesci, come gli squali generano questo flusso muovendosi in continuazione o stando contro corrente. Una volta i pesci respiravano attraverso un sacco polmonare che poi, con l’evoluzione, è stato abbandonato per diventare la vescica natatoria, un organo capace di gonfiarsi e sgonfiarsi variando il peso specifico del pesce e permettendogli di effettuare spostamenti verticali senza consumo d’energia.

Come mangiano

Gli organismi marini si dividono in tre categorie sulla base di come si alimentano per cui parliamo di: filtratori, masticatori e succhiatori. I primi filtrano acqua e sedimento alla ricerca di particelle organiche o piccoli organismi; ne sono esempi: spugne, vermi, tunicati, celenterati, oloturie, squali balena, sardine e balene. I secondi sono quelli che mangiano vegetali o animali vivi o morti come i predatori e quelli che si nutrono di carogne. mentre i terzi sono i parassiti che si nutrono mangiando tessuti di altri organismi o succhiando loro i liquidi organici, senza portarli alla morte.

Come percepiscono il mondo che li circonda

Gli organismi marini sono continuamente stimolati dalle variazioni fisico-chimiche che avvengono nell’ambiente che li circonda. I segnali in arrivo sono captati da particolari cellule chiamate recettori e trasmessi al sistema nervoso dove si studiano e si comandano le reazioni adeguate. Ogni senso ha i propri recettori che possono essere attivati da stimoli chimici (olfatto e gusto), fisici (udito, tatto, equilibrio e linea laterale) e ottici (vista). Il sistema nervoso può essere costituito da una semplice rete neurale dove non sono presenti gangli o centri di analisi e smistamento, tipico degli organismi semplici come i celenterati, o da un vero e proprio sistema nervoso centrale (S.N.C.) tipico degli organismi superiori. Quando il S.N.C. deve pianificare un’azione o reazione, sfrutta i dati provenienti dai recettori di più sensi, integrando tutti questi segnali definisce meglio l’azione da far compiere a muscoli e ghiandole. Nei pesci molti recettori sono sistemati lungo i fianchi secondo un percorso chiamato: Linea laterale.

Come producono elettricità e luce

Alcuni organismi sono in grado di produrre elettricità, altri la luce. Razze e torpedini hanno una struttura analoga ad una pila voltaica, sono quindi in grado di produrre forti tensioni capaci di stordire una preda o di allontanare un predatore.
Alcuni organismi sono in grado di produrre luce. La bioluminescenza prodotta dal plancton è continua fintanto che sono presenti ossigeno e due enzimi particolari, mentre gli organismi superiori quali seppie, totani e pesci abissali producono luce solo quando questa è necessaria per la predazione, per la difesa o per il reciproco riconoscimento.

Come e con cosa si colorano

Gli abitanti del mare utilizzano i colori a piene mani; gli scopi sono molteplici, uno di questi, a loro insaputa, è quello di stupire e farsi amare da noi terrestri.
Molti colori sono dovuti a pigmenti veri e propri, altri a fenomeni ottici di rifrangenza della luce che incide su squame e tessuti, un po’ come avviene per i diamanti. Nel caso di coralli, madrepore e spugne, i colori sono condizionati anche dalla presenza di alghe simbionti.
I bei bottoni di madreperla bianchi-verde-blu che usavano le nostre mamme, fatti di conchiglia, devono la loro iridescenza all’alternanza di strati molto sottili e trasparenti di carbonato di calcio e conchiolina.  La vivacità dei colori e la loro composizione in livree spettacolari fa pensare che tutto ciò sia organizzato per esaltare la bellezza, ma non c’è niente di più falso; colori e disegni hanno tutti uno scopo preciso legato alla sopravvivenza ed evoluzione della specie.
Gli organismi più colorati sono quelli delle acque basse della fascia intertropicale dove si sviluppano le scogliere coralline. I nuotatori delle grandi distanze hanno invece colorazioni monotone, schiena scura che vira al blu e ventre chiaro. Gli abitatori degli abissi, contrariamente a quanto si possa immaginare, mostrano dei bei colori rosati, bianchi, rossi e scuri, con alcune specie trasparenti; non si fanno mancare cellule luminescenti che rischiarano il buio assoluto del loro habitat.  L’aspetto cromatico della maggior parte degli organismi è costante, altri hanno la possibilità di cambiarlo per mimetizzarsi nell’ambiente. La mimetizzazione ha più scopi: cacciare, difendersi e corteggiare. Polpi, scorfani, sogliole e seppie sono maestri in questa particolare arte grazie a cellule dedicate chiamate cromatofori che cambiano colore semplicemente contraendosi o dilatandosi.
Gli organismi tossici mostrano colori molto vivaci per avvisare i predatori della loro pericolosità. Altri organismi, pur non essendo tossici, sfruttano questo codice per non diventare preda.
Solitamente la livrea è consona al profilo di chi la indossa, ma ci sono alcuni piccoli pesci che mostrano disegni completamente avulsi dal loro profilo allo scopo di apparire più grandi o di confondersi con l’ambiente.

Com’è fatto il loro Scheletro

Le strutture scheletriche degli organismi marini sono molto varie e devono tener conto che essi vivono immersi e sottoposti a diverse condizioni ambientali.
Pesci, mammiferi, uccelli, tartarughe, Echinidi e spugne hanno uno scheletro interno e nel caso di tartarughe ed Echinidi anche piastre protettive esterne. Coralli, madrepore e crostacei hanno uno scheletro esterno, mentre i bivalvi e alcuni gasteropodi si proteggono con una conchiglia.
C’è un problema, lo scheletro esterno dei crostacei non cresce, mentre il corpo che è all’interno sì. Per questo motivo, quando il vecchio scheletro diventa troppo stretto, viene abbandonato dall’organismo per permettere la crescita di quello nuovo che sarà di una “taglia” superiore, in gergo tecnico si dice che l’organismo ha fatto la muta. Altri organismi come vermi e alcuni crostacei, secernono del carbonato per costruirsi un tubo nel quale vivere o per saldare particelle di sabbia allo scopo di formare una protezione, che assume anch’essa la forma di un tubetto.

Come si riproducono

La riproduzione degli organismi marini è quanto mai varia. E’ presente sia la fecondazione interna tipica di mammiferi, uccelli, tartarughe e nella maggior parte di crostacei e molluschi, sia quella esterna tipica dei pesci ossei per la quale i gameti maschili e femminili sono abbandonati direttamente nelle acque dove si uniscono per formare uno zigote che si evolve negli stadi larvali. Le larve così formate entrano a far parte del plancton fino alla loro definitiva formazione. Non manca la possibilità che un organismo sia contemporaneamente maschio e femmina, cioè ermafrodita, ma in questo caso non si può autofecondare per non indebolire la variabilità genetica, quindi c’è la necessità della partecipazione di due organismi anche se entrambi ermafroditi. Spugne, polipi e altri organismi molto antichi evolutivamente, hanno un doppio sistema riproduttivo, possono riprodursi in modo asessuato o per via sessuata. Nel primo caso si avrà un rapido aumento numerico degli organismi, nel secondo un miglioramento genetico della specie.
Alcuni pesci, tra cui la cernia, cambiano sesso con l’età, nascono femmina per poi diventare maschio dopo alcuni anni. Questo fa sì che ci siano tantissime femmine e pochi maschi che è una situazione molto favorevole per la specie (basta un solo maschio per fecondare più femmine). Se fosse il contrario basterebbe la predazione dell’unica femmina di un gruppo per estinguere quella specie da quell’habitat. Nel caso dei cavallucci marini, è in maschio a incubare le uova e solitamente muore durante o dopo il parto. La continuità della specie è perseguita attraverso due strategie, quella dei grandi numeri, per la quale si ha la produzione di un immenso numero di uova fecondate, ma non accudite, e quella delle cure parentali per la quale si ha la produzione limitata di uova protette fino alla nascita e alle prime fasi dello sviluppo dei piccoli.
Altri organismi come spugne e polipi si possono riprodurre per scissione e/o gemmazione. Nel primo caso pezzi dell’organismo madre si separano per formare nuovi soggetti; nel secondo, sul corpo del genitore si firmano gemme di nuovi soggetti che arrivati a maturazione si staccano.

Le classificazioni

Gli organismi che popolano le acque salate del pianeta sono classificati tassonomicamente a partire dal regno fino alla specie. A questa si affianca un’altra classificazione basata su: capacità motorie e ambienti abitati degli organismi. S’individuano così tre grandi categorie: plancton, necton e benthos. Il plancton raggruppa tutti quegli organismi vegetali e animali che non essendo in grado di muoversi autonomamente si spostano per mezzo delle correnti.
Il necton raggruppa tutti quegli organismi che si spostano autonomamente e in ogni direzione. Il benthos è invece costituito da animali e vegetali che vivono a contatto con il fondo radicandosi o deambulando su di esso.

Il plancton (dal greco vagante)

Il plancton è composto da organismi animali e vegetali che non sono in grado di contrastare l’azione veicolante delle correnti. La sua composizione è quanto mai variegata, ne fanno parte virus, batteri, alghe, protozoi, meduse, crostacei, larve e piccoli pesci. Gli organismi planctonici hanno forme piuttosto strane che richiamano i mostri spaziali proposti dai film di fantascienza.
Il plancton è formato di una frazione vegetale, il fitoplancton, presente solamente nella fascia fotica, una animale, lo zooplancton, presente ad ogni latitudine e profondità e una  larvale composta da larve e uova di organismi superiori non ancora adulti.
Il plancton è la base della catena alimentare marina e non solo, infatti, in alcune occasioni, è servito a sfamare quei naufraghi che, armati di magliette e altri indumenti, lo pescavano per cibarsene.
Pur essendo costituito da organismi piccolissimi il plancton rappresenta la porzione maggiore della biomassa delle acque marine, tanto per avere un’idea, la biomassa del fitoplancton è paragonabile a quella di tutti i vegetali terrestri.

Il fitoplancton

Il fitoplancton è costituito da organismi autotrofi che producono la materia organica disponibile per i consumatori. I suoi organismi sono in grado comporre i nutrienti (sali e oligoelementi come manganese, cobalto, rame, ferro, molibdeno e zinco) in molecole di materia organica con legami forti ottenuti grazie alle reazioni fotosintetiche. L’importanza del fitoplancton è immensa, produce il 60% dell’ossigeno terrestre ed è vitale per la vita nelle acque dolci e salate.
Alcune specie di fitoplancton sono in grado di produrre luce che si manifesta quando si movimentano le acque. A tutti sarà capitato di fare un bagno estivo notturno, o passeggiare sulla battigia e notare alcuni scintillii nelle acque.
Tra gli organismi che compongono il fitoplancton, ci sono diatomee, cianobatteri e dinoflagellati.

Lo zooplancton

Lo zooplancton è il primo consumatore della catena trofica, quindi si nutre del fitoplancton ed è, a sua volta, base alimentare per i consumatori di secondo livello.
Tutti i gruppi zoologici sono rappresentati nello zooplancton, dagli organismi unicellulari (i più piccoli) a quelli più complessi e grandi che possono raggiungere oltre i 20 cm. Tra questi troviamo, dominanti, gli erbivori, poi onnivori, detritivori e carnivori. Nello zooplancton possiamo annoverare radiolari, foraminiferi, protisti e cnidari. Tra le forme macroscopiche troviamo anche gli ctenofori, affini ai celenterati, e alcuni tunicati, trasparenti ed evanescenti e le meduse. Gli ctenofori hanno il corpo esterno percorso da scie luminose che si muovono e cambiano colore.  I crostacei sono la frazione più abbondante dello zooplancton e sono fondamentali per l’alimentazione dei grandi mammiferi marini come le balene. La presenza di balene nel Mar Ligure è dovuta proprio alla presenza abbondante di crostacei planctonici.

Il necton (dal greco natante)

Il necton comprende tutti quegli animali che sono in grado di muoversi autonomamente nella massa d’acqua in direzione verticale e orizzontale vincendo correnti e moto ondoso.
Gli organismi nectonici sono ovviamente i pesci ai quali si aggiungono mammiferi, rettili, uccelli (pinguini, cormorani) e alcuni molluschi (totani, Nautilus…).
La forma del corpo accomuna la maggior parte dei nectonici a prescindere dalla loro posizione tassonomica. Per potersi muovere velocemente, per mangiare o per non farsi mangiare, in un mezzo molto denso, occorre avere una forma idrodinamica. Ecco allora che i mammiferi tendono ad assomigliare ai pesci e ai molluschi come i totani. La superficie esterna oltre che affusolata non deve avere protuberanze per non creare turbolenze. A questo scopo, i genitali e le ghiandole mammarie dei mammiferi scompaiono entro incavi della pelle, gli occhi dei tonni non fuoriescono dal profilo della testa e le pinne si ritraggono quando vogliono raggiungere le massime velocità. In alcuni pesci scompaiono le pinne ventrali e in altri appaiono piccole pinne caudali che riducono la turbolenza e aumentano la stabilità.  Gli squali hanno pinne pettorali fisse e quella caudale con il lobo superiore allungato per una maggiore spinta, il galleggiamento è agevolato da un fegato grande e ricco di olii. Con una ricerca così accurata della forma non poteva mancare quella sul colore. I grandi corridori si muovono in acque profonde, dove i colori dominanti sono il blu se si guarda verso il fondo e il chiaro della luce se si guarda dal fondo verso il cielo. Per questo motivo cetacei, squali, mante… hanno il dorso blu e il ventre bianco perché diventano invisibili sia se si osservano dal basso sia dall’alto. Tutte queste caratteristiche strutturali e cromatiche sono fondamentali per i nectonici che vivono in ambienti aperti, mentre quelli che vivono in prossimità del fondo devono avere il dominio del movimento lento e dello scatto rapido e breve. Allo scopo le loro pinne sono molto sviluppate, la loro vescica natatoria agisce rapidamente per rispondere alle esigenze di stazionamento a una determinata quota. Sono esempi i pesci da tana, quelli che vivono nei banchi di posidonia o nelle barriere coralline. I pelagici degli alti fondali o batipelagici sono caratterizzati da morfologie e cromatismi particolari, dal trasparente all’argentato e spesso possiedono cellule chiamate fotofori che sono in grado di emettere luce propria. Questa è usata per il riconoscimento reciproco tra esseri della stessa specie o per confondere eventuali predatori.

Il necton: componenti

I pesci

Tra i vertebrati, i pesci sono quelli ad avere il maggior numero di specie. Sono animali esclusivamente acquatici, hanno forme e livree diverse in funzione della posizione nella catena trofica, dell’habitat in cui vivono e dei rapporti reciproci all’interno della specie. I grandi nuotatori nectonici, per esempio, hanno forme affusolate per essere veloci e colori adatti per non essere notati nei grandi spazi oceanici e marini, mentre le cernie sono tozze e dottate di grandi pinne. I pesci sono dotati di pinne, queste si distinguono in pari pettorali e ventrali, e impari (in numero di 1) caudale e dorsale. Le pinne possono essere sorrette da cartilagini o da spine ossee e possono essere fisse (squali) o mobili (cernie…) La pinna caudale ha lo scopo di propulsore ed è particolarmente efficace nei grandi nuotatori, come quella falciforme degli squali. Nei pesci stanziali invece è corta e larga per muoversi rapidamente in spazi ristretti.
La maggior parte dei pesci si muove con la pinna caudale attraverso un movimento sinusoidale della linea longitudinale. La pinna dorsale si presenta con molte variazioni, basti pensare che l’esca che muove la rana pescatrice per attirare le sue prede, è parte della pinna dorsale modificata, così come la ventosa che permette alle remore di incollarsi a squali, tartarughe e razze. Le pinne pari, pettorali e ventrali, servono per girarsi, fermarsi e/o sostare in una certa posizione. Molti pesci sono ricoperti da squame, altri da cuticole ruvide; in alcuni casi le squame con un muco che facilita il movimento.
Le branchie sono l’organo con il quale i pesci assumono l’ossigeno ed eliminano l’anidride carbonica; la loro vista è simile a quella dei mammiferi, infatti riescono a distinguere i colori. L’olfatto è molto sviluppato, ma la conoscenza del mondo che li circonda avviene principalmente attraverso la linea laterale. Questa linea attraversa entrambi i lati dei pesci ed è costituta da tubicini colmi di muco che attraversano le squame e si affacciano all’esterno con cellule sensoriali. Queste sono collegate al cervello dove avviene  l’elaborazione dei segnali in arrivo e delle conseguenti reazioni da assumere. Le linee laterali sono in grado di fornire indicazioni su correnti, ostacoli, vibrazioni e variazioni minime di pressione causate dal passaggio di pesci o altri oggetti.
I pesci si possono dividere sulla base della natura del loro scheletro in ossei e cartilaginei; a questi ultimi appartengono squali, razze e torpedini.

I mammiferi

I mammiferi sono ex organismi terrestri tornati a vivere nell’ambiente marino per cui possiedono scheletri e fisiologie analoghe alle nostre. Concepiscono e danno alla luce i piccoli come noi, lo scheletro, pur con differenze dimensionali, è simile al nostro e respirano attraverso i polmoni. Pur potendosi recare a profondità vertiginose, hanno bisogno di tornare in superficie per respirare. La loro morfologia si è adattata alle necessità di mobilità acquatica così come alcuni organi hanno cambiato disposizione nella topografia del corpo, ne è un esempio il naso delle balene. Capodogli, balene, delfini, foche… fanno parte dei mammiferi marini.

Gli uccelli

Tra gli uccelli marini ricordiamo: cormorani, gabbiani, fregate, albatros, pulcinella di mare e pinguini. Questi ultimi hanno perso la capacità di volare in aria, ma hanno modificato il loro corpo rendendolo idrodinamico e protetto da strati di grasso, le loro penne e piume per renderle piccole, aderenti e impermeabili. In questo modo sono diventati adatti al freddo e alla cattura dei pesci, anche di quelli più veloci.

I molluschi

Solitamente i molluschi sono caratteristici dell’ambiente bentonico, ed è così, ma esistono alcune eccezioni come il totano gigante e il Nautilus che vivono nei grandi volumi oceanici spostandosi rapidamente attraverso tutta la colonna d’acqua.

Il benthos (dal greco profondo)

Il benthos è uno scrigno di biodiversità, di habitat, di colori e forme. Tutti i fondi, siano essi fangosi, sabbiosi o rocciosi, che si estendono tra il limite di marea e gli abissi oceanici sono biotopi dove si sviluppa e vegeta il benthos. Piante, alghe, coralli, vertebrati e invertebrati, vivono in questi ambienti che siano illuminati o no. Il benthos è costituito sia da organismi perennemente abbarbicati al fondo, detti sessili, sia da esseri che si muovono più o meno velocemente su di esso.
Non c’è fondale che non sia abitato: anche nella fossa oceanica più profonda, a circa -11.000 metri è presente la vita. Durante la prima discesa del batiscafo Trieste nella fossa delle Marianne, è stato osservato un pesce piatto simile ad una sogliola a -10.840 metri. Chiaramente si tratta di organismi altamente specializzati che sopravvivono quasi esclusivamente grazie alla materia organica che proviene dalla superficie o, nel caso di oasi geotermali (chiamate vent), per i batteri chemio-autotrofi. L’ambiente di piattaforma continentale è caratterizzato dalla presenza di alghe e piante, ma basta che si apra un anfratto profondo e buio che le alghe lasciano gli spazi a organismi incrostanti quali spugne, briozoi, coralli e pesci. Anche quando il fondo è solo di sabbia al suo interno vivono molluschi e vermi e trovano nascondiglio pesci, sogliole e seppie.

Chi abita il Benthos

Procarioti: Batteri

 La cellula dei batteri è primitiva, priva di un nucleo (il DNA si trova immerso nel citoplasma) e di organuli, è unicellulare e si riproduce per scissione binaria. I procarioti sono i primi organismi comparsi sulla Terra nella forma dei cianobatteri; sono rimasti gli unici abitatori del pianeta per circa 1,5 miliardi di anni. I batteri sono fondamentali per chiudere la catena alimentare perché sono in grado di decomporre la materia organica morta in nutrienti. La loro biomassa attuale è superiore a quella di tutti gli altri organismi viventi; le vite dei viventi sono influenzate in modo massiccio dai batteri. Sono organismi molto piccoli che si organizzano in colonie filamentose o tondeggianti e si riproducono per scissione.  Negli ambienti marini come in quelli terrestri i batteri possono essere simbionti o parassiti, fino alla morte degli ospiti. L’attacco batterico a gorgonie o spugne può portare alla loro morte. Quando una spugna è attaccata, cerca di isolare la parte infetta; se ciò non dovesse bastare l’infezione prosegue fino al distacco della spugna al fondo. 
Nel solo Mediterraneo si conoscono 165 specie di batteri (cianobatteri) ma questo numero è approssimato per difetto.  La loro diffusione e azione è favorita dall’aumento della temperatura delle acque; un eventuale riscaldamento globale del pianeta favorirebbe la loro azione.

Protisti

I protisti sono organismi eucarioti (quindi un nucleo organizzato con organuli), pluricellulari (alghe) o unicellulari (protozoi e alghe). La cellula degli eucarioti è grande e complessa, si è evoluta da quella procariota tramite compenetrazione di cellule procariote.
Comprendono specie che possono essere considerate ai confini tra i regni delle piante, degli animali e dei funghi. Si riproducono asessualmente per divisione cellulare, e talvolta sessualmente, per coniugazione. I protisti si possono distinguere in tre grandi raggruppamenti: autotrofi, (fotosintetici, assimilabili alle piante),  eterotrofi o protozoi, (assimilabili agli animali), protisti saprofiti, che si nutrono per assorbimento, (assimilabili ai funghi).
I protisti autotrofi
I protisti autotrofi sono acquatici e comprendono quasi tutte le alghe unicellulari. Costituiscono complessivamente la biomassa prevalente del fitoplancton, produtrice di quasi il 70% di tutta l'attività fotosintetica della Terra.
I protisti eterotrofi, o protozoi
I protisti eterotrofi, o protozoi (dal greco, primi animali) sono parassiti, altri simbionti, moltissimi sono presenti dove abbondano le sostanze organiche in decomposizione.
I protisti saprofiti
I protisti saprofiti comprendono organismi simili a funghi, che si nutrono per assorbimento di sostanze in decomposizione. Sono privi di parete cellulare e vengono chiamati funghi mucillaginosi. Essi sono alla base di ogni evoluzione biologica, stadio da cui si sono sviluppati tutti gli altri organismi viventi: in ciò sta la loro incommensurabile importanza nella comprensione della biologia e dell'evoluzione.
Qui i protisti sono menzionati perché ce né una specie bentonica che vive attaccandosi alle rocce o alla base delle Posidonie, la Minacina minacea.  Le sue dimensioni arrivano a superare il millimetro, un gigante per essere un protista. La sua diffusione è così vasta che alla loro morte i piccoli scheletri sono in grado, insieme a frammenti di briozoi, di colorare alcune spiagge di rosa come quella di Budelli in Sardegna ritenuta erroneamente colorata da briciole di corallo rosso.

I vegetali

I vegetali che si trovano nelle acque marine sono piante superiori o alghe. Le piante e le alghe sono presenti fin dove arriva la luce; le prime possono essere verdi, brune, rosse, molli o mineralizzate. Le alghe verdi si trovano normalmente nella fascia prossima alla superficie accompagnate talvolta da brune e rosse. Le alghe calcaree sono diffuse dalla linea di battigia fino a -100 costituendo, in alcuni casi, degli ammassi duri che possono fungere da base per i coralli e madrepore. Tra le piante, la più rappresentativa è la Posidonia oceanica che è in grado di costituire estese praterie e assolve importanti ruoli nell’ambito del benthos.

Piante superiori
Si tratta di Angiosperme Monocotiledoni nei generi Posidonia e Cimodocea.
Sono piante fanerogame per cui attrezzate con tutti gli organi: radici, fusto, foglie, fiori e frutti, adattatesi, circa 100 Ma fa a vivere nell’ambiente sommerso e arrivando fino a noi. Il loro fusto è un rizoma che a seconda delle condizioni può essere strisciante o eretto. Le foglie possono arrivare al metro di lunghezza e costituiscono una barriera per il sedimento grossolano che così catturato si deposita alla loro base innalzandola di 1metro ogni 100 anni. Il sedimento più fine passa attraverso le foglie e va a depositarsi tra i banchi a Posidonia. Poco sotto la battigia vegeta, invece, l’altra pianta, la Cymodocea. Diversamente dalla Posidonia che necessita di acque chiare, la Cymodocea è in grado di vivere in ambienti dove le acque sono più torbide, anche a causa del moto ondoso.
Tra i mesi autunnali e quelli invernali nelle acque marine fioriscono la Posidonia e la Cimodocea.
Tra Aprile e Maggio i frutti sono maturi, si staccano dalla pianta e, galleggiando grazie agli olii che li rivestono, sono trasportati alla ricerca di un posto dove insediarsi.
La Posidonia è un bene inestimabile per la costa, il flettersi delle sue foglie riduce l’energia delle onde e quando l’energia è così forte da strappare le sue foglie, queste si depositano sui litorali sabbiosi proteggendoli ulteriormente dall’erosione. Gli odori che emanano questi depositi sono dovuti solo in parte alla marcescenza della posidonia, perché la quota maggiore è dovuta alla decomposizione dei suoi organismi simbionti. Le praterie a Posidonia sono generatrici di grandi quantità di ossigeno. Tutto il corpo della prateria è un ambiente che ospita: tunicati, briozoi, alghe, spugne, artropodi, echinodermi e pesci in tutte le loro fasi vitali. La distribuzione delle piante è piuttosto strana, sono presenti in tutto il Mediterraneo e in alcune zone dell’Australia.

Alghe

Le alghe sono vegetali aventi una sola struttura, il tallo che assolve a tutte le funzioni vegetative.
Le alghe si distinguono in:
brune: (perché contengono il pigmento ficoxantina )
rosse: (perché contengono il pigmento ficoeritrina)
verdi: (perché i cloroplasti oltre a contenere clorofilla A contiene il tipo B che da il colore verde).
All’interno delle tre tipologie, le alghe assumono forme e colori molto variabili. Alcune sono coriacee, e altre mucillaginose, alcune prostrate, altre erette, alcune sono in grado di far precipitare il carbonato contenuto nelle acque.
Si riproducono in tre modi: moltiplicazione, riproduzione asessuata e sessuata. Nel primo caso il tallo si divide per generare un altro individuo. Nel secondo si ha la diffusione di spore, liberate da ricettacoli chiamati sporocisti, che si abbarbicano nel substrato. Nel terzo caso si ha la diffusione di gameti maschili e femminili che si liberano dai gametocisti, per poi unirsi a formare zigoti.
La quantità di luce ambientale condiziona la distribuzione delle alghe, in condizioni di bassa illuminazione vegetano le alghe sciafile, in ambienti ben illuminati le alghe fotofile. La distribuzione delle alghe è condizionata anche dal tipo di substrato e dall’energia dell’ambiente. Nelle zone di variazione di marea vegetano le alghe che possiedono un tallo molto robusto per resistere all’impatto delle onde e vescicole piene d’acqua per resistere ai momenti di bassa marea.
Tra le alghe brune, il genere Cystoseira è protetto a livello internazionale in quanto la sua struttura forte  favorisce l’insediamento di altre specie animali e vegetali.
Le alghe rosse vivono anche a grandi profondità (fino a -100 metri) e alcune sono in grado di catturare il calcio per poi depositarlo nei talli che diventano così solidi. Quando la loro diffusione è pervasiva possono costituire una base solida sulla quale si può impiantare un ambiente coralligeno.
Le alghe verdi sono considerate le progenitrici delle piante terrestri superiori.

Mondo Animale

 Invertebrati

Poriferi, le spugne

Le spugne sono organismi che popolano le acque da oltre 500 Ma. Attualmente se ne contano circa 5000 specie delle quali 600 nel Mediterraneo. Il loro corpo è semplice di varie dimensioni e colori, senza simmetrie, costituito da poche tipologie di cellule, non organizzate in organi, tessuti e apparati. Lo strato esterno è costituito da cellule protettive, nei condotti e nella parete interna si trovano cellule provviste di flagello in continuo movimento per indurre la circolazione dell’acqua e la cattura delle sostanze nutritive. Lo strato intermedio è costituito da cellule che assolvono a più funzioni come: digestione, riproduzione, escrezione, immagazzinamento e ricostruzione delle parti danneggiate. Altre cellule assolvono a compiti quali collagene intercellulare, sostegno meccanico attraverso fibre elastiche (spongina) e minerali (spicole). Le spicole sono piccole strutture silicee e/o calcaree che si compongono in strutture portanti e flessibili.
La fisiologia della spugna è semplice, sul corpo si trovano i fori inalanti attraverso i quali entra l’acqua da filtrare. La massa corporea contiene camere e canali dove vengono catturate le sostanze nutritive. L’acqua poi arriva nel cavo centrale e condotta in alto verso l’osculo, un grande foro esalante dal quale esce l’acqua impoverita dei nutrienti e ricca di prodotti di rifiuto.
Si riconoscono tre tipi di strutture: Ascon che è la più semplice dove i fori inalanti sono collegati direttamente al canale centrale, Sycon con microcamere che si affacciano sul condotto centrale e Leucon caratterizzata da una rete di camere e condotti che si sviluppano nel corpo centrale.
Le spugne sono un elemento vitale per gli ecosistemi marini in quanto depurano le acque grazie alla loro capacità di filtrare ed eliminare le sostanze tossiche prodotte dalla biocenosi. Ogni centimetro cubo di volume di una spugna è in grado di filtrare un litro d’acqua all’ora per cui una spugna con volume pari a un litro può depurare 1000 litri d’acqua all’ora.A riprova è stato fatto un esperimento. In una piccola porzione di scogliera corallina sono state eliminate tutte le spugne; ebbene, dopo un mese tutti i coralli e madrepore dell’area erano morti. Nel Mediterraneo la pesca della spugna da bagno è stata vietata per rischio estinzione. Le spugne si possono unire in moduli complessi dove non è più riconoscibile il singolo elemento.
La riproduzione può essere sessuata o asessuata. Nel primo caso i gameti maschili incontrano quelli femminili all’interno del corpo (spugne vivipare) o nell’ambiente acquatico (spugne ovipare). La riproduzione asessuata avviene per scissione dal corpo madre di una parte, ciò avviene per colamento gravitativo. Poi c’è la riproduzione per gemmazione per la quale tante piccole gemme di spugna si manifestano sulla sua superficie esterna per poi staccarsi a maturazione avvenuta. Le spugne si possono riprodurre anche per “talea”. Se recidiamo un lembo di spugna e lo fissiamo al fondo, da esso crescerà una nuova spugna. Nel solo Mediterraneo le spugne popolano tutti gli ambienti bentonici dai fondi illuminati molli e duri alle grotte, dalle pietre alle conchiglie e rizomi di posidonia, fino alle pareti dei moli e alle catene degli ancoraggi portuali. Sono il cibo preferito di nudibranchi, gasteropodi, anellidi, crostacei, stelle marine, pesci e tartarughe che le brucano. La colorazione delle spugne si deve a cianobatteri simbionti. In altri casi la simbiosi avviene con molluschi dei quali ricopre le conchiglie. La forma delle spugne dipende dall’energia dell’ambiente. Le prostrate sono di ambienti ad alta energia, quelle tridimensionali di bassa energia.
La vita delle spugne è proporzionale al loro ritmo di crescita. Le più veloci a crescere vivono pochi mesi, le più lente possono arrivare a età centenarie. In spazi ridotti le spugne possono emettere delle tossine per limitare la diffusione dei competitori (altre spugne, briozoi, coralli, alghe,…), comunque le pareti di grotte o rocce diventano puzzle coloratissimi che ricordano le tele dei pittori astrattisti.
Alcune spugne emettono dei fluidi molto acidi con i quali perforano le pareti calcaree creando canali entro i quali instaurarsi emergendo solo coi fori inalanti e esalanti.
A questo punto possiamo introdurre la classificazione delle spugne anche secondo la forma.
Oltre alle perforanti abbiamo le spugne incrostanti che tappezzano vasti tratti di roccia soprattutto le pareti scure delle zone aggettanti o delle grotte, poi ecco le forme massive che si sviluppano nelle tre dimensioni in modo uniforme e per finire le forme erette che a partire da un piccolo attacco sul substrato hanno un maggiore sviluppo verticale.

Cnidari (ortiche) ex Celenterati

Il termine Cnidari deriva dal greco Knìda che significa ortica; infatti, alcuni dei loro tentacoli sono dotati di bio-tossine. Il loro corpo ha forme polipoidi, o medusoidi di piccole dimensioni ed è formato da due strati cellulari, uno interno (endoderma) e uno esterno (ectoderma), che delimitano una cavità (celenteron). Il celenteron ha funzioni digestive e presenta un’apertura per l’immissione delle sostanze nutritive e l’emissione di quelle di rifiuto. Le forme polipoidi hanno la bocca rivolta verso l’alto mentre quelle medusoidi verso il basso. Il polipo non ha organi.
La riproduzione dei Cnidari può essere sessuata o asessuata. Nel primo caso si ha la produzione di gameti maschili e femminili che sono rilasciati in acqua, o rimangono in gestazione nel polipo madre fino alla formazione di una planula che si fissa al fondo per dare origine al nuovo polipo.  La riproduzione asessuata può essere di due tipi: scissione (divisione di una colonia due per formare nuove colonie) e gemmazione (formazione di gemme che poi si staccano dalla madre).
I polipi contengono al loro interno, nella parte superficiale, una quantità smisurata di microscopiche alghe chiamate zooxantelle con le quali sussiste un rapporto simbiotico. L’anidride carbonica di rifiuto del polipo è acquisita dalle zooxantelle per comporla con luce solare e acqua per produrre ossigeno e zuccheri. Una percentuale di questi zuccheri è acquisita dal polipo per il suo sostentamento chiudendo il ciclo simbiotico.
Più i polipi vivono prossimi alla superficie più zooxantelle possono contenere al loro interno e più queste sono efficienti.  La concentrazione di zooxantelle determina la colorazione dei polipi. I polipi trasparenti sono privi di zooxantelle per cui il corallo si mostra bianco; questa è una condizione di premorte dello stesso corallo.
I Celenterati o Cnidari si dividono in tre Classi: Idrozoi, Scifozoi e Antozoi, sono caratterizzati dall’avere un corpo a simmetria raggiata che è rara tra gli animali e testimonia le antiche origini di questo Phylum le cui radici affondano oltre i 500 Ma.
Gli Idrozoi (animali d’acqua) raggruppano gli organismi più semplici, gli Scifozoi (animali bicchiere) raggruppano le meduse, mentre agli Antozoi (animali fiore) afferiscono i coralli.

Idrozoi (animali d’acqua)

Gli idrozoi sono i cnidari più primitivi e sono rappresentati da 3500 specie tutte marine tranne una d’acqua dolce. Hanno forme polipoidi o medusoidi e vivono normalmente in colonie. Il loro ciclo vitale è diviso in due stadi polipo (asessuato e bentonico) e medusa (sessuato e planctonico). Nascono da un uovo fecondato e si trasforma in planula che poi si fissa al fondo. I nuovi polipi si dividono in efire o giovani meduse che, una volta adulte, producono i gameti per la riproduzione sessuata.
Le colonie si moltiplicano per gemmazione. In una colonia i singoli componenti hanno tentacoli e bocca personale e gli altri tessuti in comune.

Scifozoi (animali bicchiere)

Il nome Scifozoo deriva dall’introflessione dell’ectoderma a livello della bocca che genera una forma a bicchiere. Agli Scifozoi appartengono le meduse che sono presenti in circa 200 specie. Sono organismi tra il pelagico e planctonico, il loro movimento a pompa è efficiente in condizioni di acque ferme, ma non può nulla in presenza di correnti. Sono organismi predatori o filtratori.
La loro riproduzione è analoga a quella degli Idrozoi

Antozoi (animali fiore)

Gli Antozoi sono costituiti da piccoli polipi normalmente aggregati in colonie fissate al fondo chiamate coralli. Hanno simmetria raggiata e si dividono in esacoralli e ottocoralli. Gli esacoralli hanno un numero tentacoli pari a sei o suoi multipli (12, 18), gli ottocoralli hanno otto tentacoli pennati. Entrambi possono produrre uno scheletro carbonatico o fibroso con la differenza che gli esacoralli lo rivestono completamente con i loro tessuti, mentre negli ottocoralli i polipi vivono entro piccole cavità lasciando a nudo il resto della struttura.
Le scogliere coralline sono habitat fondamentali per la biodiversità alle latitudini intertropicali.
Gli Antozoi popolano tutti i tipi di fondo, da quelli limosi alle rocce, dalle zone ben illuminate a quelle scure delle grotte. I polipi degli Antozoi hanno dimensioni varie, possiedono particolari cellule sensitive che permettono loro di monitorare il mondo esterno ed eventualmente avere reazioni appropriate alla difesa o alla cattura del cibo.
La loro riproduzione è differenziata, la forma sessuata attraverso la planula è lenta ma porta un nuovo patrimonio genetico. Una volta impiantata, la planula eleva il corallo producendo, per gemmazione, cloni di se stessa, una modalità veloce che permette una colonizzazione rapida.
Nel solo Mediterraneo si conoscono 182 specie di Antozoi (123 esacoralli e 59 ottocoralli). I coralli sono organismi molto antichi e longevi, la loro età può superare diverse centinaia di anni. Al momento non si hanno riscontri di organismi evoluti dai celenterati per cui essi rappresentano un vicolo cieco dell’evoluzione.
Agli esacoralli appartengono: attinie/anemoni, margherite di mare, coralli neri, madrepore, anemoni gioiello e cerianti. Le attinie popolano tutti i tipi di fondo, dai rizomi della posidonia alle conchiglie dei paguri. Con i loro tentacoli sono in grado di catturare pesci e meduse di cui si cibano accettando però come simbionti granchi e alcuni minuscoli gamberetti. La simbiosi con il paguro è conosciuta da tutti, lui la porta in giro, lei lo protegge lanciando speciali filamenti urticanti chiamati aconzie. I cerianti, a differenza degli anemoni, hanno due file di tentacoli, quelli interni sono corti e di color chiaro, quelli esterni lunghi e scuri. Le margherite di mare solitamente vivono raggruppate in zone semi oscure. Le madrepore diffusissime nelle barriere coralline e meno frequenti nel Mediterraneo possono essere singole o vivere in colonie, il loro scheletro carbonatico le rende uniche tra gli esacoralli. Gli anemoni gioiello possono essere confusi con le madrepore solitarie, ma non hanno lo scheletro carbonatico e i loro tentacoli esterni terminano con una piccola sfera. 
Gli ottocoralli sono tutti coloniali con i polipi che sono in grado di rientrare nello scheletro carbonatico che può avere una forma a ventaglio come nelle gorgonie o ramificata come il corallo rosso. In alcuni casi lo scheletro può essere ricoperto da una pellicola organica dove corrono canali che mettono in comunicazione tutti i polipi della colonia. Appartengono agli ottocoralli: gorgonie, corallo rosso, alcionari e pennatule. I primi due hanno scheletro autoportante, mentre gli altri hanno scheletro molle sostenuto solo da rade spicole residenti all’interno del tessuto organico e scollegate tra loro.

Ctenofori (portatori di pettini, ciglia)

Gli Ctenofori sono organismi trasparenti ma dotati di filamenti ciliati luminescenti che li rendono inconfondibili. Non sono Cnidari in quanto non posseggono cnidoblasti, al loro posto hanno cellule adesive che permettono loro di catturare organismi planctonici. La membrana esterna protegge la cavità interna dove risiedono gli organi della digestione e riproduzione. Si riproducono sessualmente con emissione di gameti maschili e femminili. Ogni soggetto produce i due tipi di gameti essendo ermafrodita. Si dividono in nudi e tentacolati a seconda che siano presenti o no dei tentacoli.

Vermi

I vermi marini sono cugini di quelli terrestri. Hanno forme piatte (Platelminti) o cilindriche (Anellidi Policheti). Nei vermi cilindrici il corpo è costituito da una serie di anelli simili che sono uniti secondo un asse longitudinale. I vermi erranti hanno organi di movimento rivestiti si setole mentre i sedentari, s’intanano nel fondo sabbioso o si radicano in un fondo solido (anche boe, barche e moli) costruendo un tubo flessibile nel quale si rifugiano facendo fuoriuscire solo l’apparato branchiale per respirare e alimentarsi. Gli apparati branchiali sono una costruzione meravigliosa, è una spirale di raggi.  Ogni raggio è munito di microscopiche setole e man mano che la spirale si avvolge si protende verso l’alto e riduce la lunghezza dei raggi quasi fino a zero, la figura finale è un cono dai colori caldi e livree geometriche, che ondeggia con voluttà seguendo il moto ondoso. Spirografi e serpule sono gli organismi che ci regalano questo spettacolo.

Molluschi

I molluschi hanno un corpo molle che può essere munito o no di una conchiglia esterna o interna. La conchiglia è formata da tre strati, quello esterno ha un compito protettivo ed è composto da una sostanza proteica, la parte mediana è formata da sottili strati di carbonato di calcio, mentre la parte interna, a contatto con l’animale, è solitamente formata da madreperla. La conchiglia è generata da un organo interno chiamato mantello e può essere composta da un unico pezzo, nei Gasteropodi, in due, nei Bivalvi, o in numero maggiore, nei Poliplacofori.  Il mantello solitamente si mantiene all’interno della conchiglia, ma in alcuni gasteropodi può fuoriuscire e ricoprire interamente la conchiglia. In alcune specie il mantello si è trasformato in sifoni utilizzati per varie funzioni: spostamento, respirazione, alimentazione ed espulsione prodotti di rifiuto. Nel caso di polpi, seppie e totani il mantello è diventato l’involucro esterno.
Un'altra parte comune ai molluschi è il piede, un organo muscoloso che cambia forma in funzione delle diverse necessità degli organismi. Per i deambulatori il piede è largo e produce un liquido lubrificante per facilitare il movimento sul fondo, per gli infossatori è lungo e robusto per potersi interrare, invece per polpi, seppie e totani il piede si è trasformato in tentacoli che assolvono funzioni motorie e di cattura.  Tra il piede e il mantello si trova un solco dove sono alloggiate le branchie, e, in alcune specie, la radula, una specie di raspa, con la quale vengono raschiate parti di alghe e organismi incrostanti. Il sistema nervoso può essere centrale o distribuito in piccoli gangli. La riproduzione è di tipo sessuata e generalmente con fecondazione in acqua. Le uova sono racchiuse in teche ovariche aventi varie forme o in strisce spiralate con uova immerse in una massa gelatinosa. In alcune specie nella massa gelatinosa sono inclusi granuli di sabbia.
I Molluschi si dividono in: Poliplacofori, Bivalvi, Gasteropodi, Nudibranchi e Cefalopodi.

Poliplacofori (più placche)

I Poliplacofori hanno una conchiglia composta da otto placche articolate e unite da fibre elastiche che permettono loro di adattarsi a ogni tipo di fondo duro. Si cibano raschiando alghe e piccoli organismi di fondo con la radula.

Bivalvi (due valve)

I Bivalvi vivono a stretto contatto con il fondo in diversi modi. Alcuni s’infossano nel sedimento sciolto come sabbia e fango (vongole, arselle e cannolicchi), altri si radicano sul sedimento con filamenti setosi, chiamati bisso (Pinna nobilis), altri si abbarbicano ai fondi duri sempre per mezzo del bisso (cozze e arca di Noè), altri ancora si saldano al fondo duro (ostriche) e infine ci sono i perforatori che bucano la roccia con secrezioni acide per poi introdurcisi (datteri di mare). Si alimentano quasi tutti filtrando l’acqua e diventano quindi importanti per valutare lo stato di salute delle acque perchè accumulano sostanze inquinanti.  Il nome bivalvi è dovuto alla loro conchiglia a due valve incernierate che chiudono e aprono per mezzo di muscoli interni. Sono dotati di sifoni per introdurre ed espellere l’acqua e, in alcuni casi, per muoversi. La loro riproduzione è sessuata per aspersione in acqua di gameti maschili e femminili. Il piede è un organo coloratissimo con più funzioni; la più spettacolare è quella di produrre una secrezione gelatinosa e filamentosa che a contatto con l’acqua solidifica diventando bisso. Il bisso si presenta come un mazzetto di fili sottilissimi color verde cangiante e dall’aspetto setoso che può essere filato. In Sardegna è ancora possibile trovare tessuti in bisso.

Gasteropodi (piede ventre)

La maggior parte dei gasteropodi si costruisce una conchiglia a forma conica che diventa a spirale nelle specie più moderne. Il loro sviluppo morfologico è condizionato da un muscolo asimmetrico che induce una torsione all’intero corpo e impone la presenza di un solo rene, una branchia e una gonade e quindi la perdita della simmetria bilaterale. I Gasteropodi sono i molluschi più diffusi negli habitat bentonici. Alcuni hanno la conchiglia forata per permettere la fuoriuscita degli escrementi lontano dal sifone inalante.  La bellezza delle loro conchiglie alimenta un mercato collezionistico che a volte diventa pericoloso per la sopravvivenza delle specie rare. Sono animali sia vegetariani che carnivori, i primi masticano le alghe con la radula. I carnivori bucano la conchiglia di altri gasteropodi con forellini precisi, dopodiché uccidono il malcapitato per cibarsene. Altri Gasteropodi si alimentano filtrando il sedimento o ingerendo sostanze in decomposizione.

Nudibranchi (con branchie esterne)

I nudibranchi sono privi di conchiglia, devono il loro nome alla posizione esterna delle branchie che si manifestano come un ciuffetto ondulante. I nudibranchi si cibano di cnidari senza subire la loro azione urticante, anzi li fanno propri per poi utilizzarli a loro volta per gli stessi scopi. Mancando di conchiglia la loro difesa si affida alle colorazioni vistose, per intimorire, o mimetiche, per confondersi nell’ambiente o agli stessi cnidoblasti.

 Cefalopodi (piedi in testa)

Nei Cefalopodi, il piede dei Molluschi è trasformato in braccia e tentacoli utili a: deambulazione e caccia, mentre il mantello si è commutato nella sacca che contiene i visceri.
La maggior parte dei cefalopodi sono abili nuotatori perciò nectonici. Alcuni (es. la seppia) hanno una sottile conchiglia interna per mantenere il corpo secondo l’asse longitudinale mentre altri, come il polpo, non la possiedono. La trasformazione del piede ha dato anche origine al sifone che è l’organo con il quale i Cefalopodi si muovono rapidamente nell’acqua.
La loro “pelle” è ricoperta da cromatofori che utilizzano per il mimetismo; i calamari abissali sono dotati anche di cellule luminescenti. Il loro sistema nervoso centrale è molto complesso e organizzato al punto che i polpi sono tra gli animali più intelligenti del mare. La vista e il senso tattile molto evoluto permette di catturare le prede con sicurezza. In caso di pericolo molti sono in grado di creare nuvole nere per confondere l’avversario. La fecondazione avviene nel corpo della femmina dopo che il maschio ha introdotto un tentacolo speciale (ectocotile) dal quale fuoriescono i gameti maschili. Una volta fecondate le uova sono sistemate in teche ovariche fissate al fondo.

Artropodi, Crostacei

I Crostacei sono una classe degli Artropodi, la meglio rappresentata nel mare.  La loro peculiarità è quella d’avere un esoscheletro (cuticola) che è impermeabile e sostiene e protegge l’organismo. Durante la crescita la vecchia cuticola viene sostituita da una più grande con un’operazione chiamata muta. La cuticola è rigida nella maggior parte del corpo e diventa elastica in corrispondenza delle articolazioni per permettere il movimento, è ricoperta da sensori (peli) che sono in grado di percepire le variazioni chimico-fisiche dell’ambiente. L’esoscheletro è diviso in tre sezioni capo, torace e coda; a volte il capo e il torace sono saldati (carapace), mentre la coda assume il nome di telson. Il capo dei crostacei è dotato di appendici: occhi sessili o con supporti, quattro antenne sensoriali, due mandibole e due mascelle. Ai lati del tronco si trovano le zampe; le due anteriori possono essere trasformate in chele.  La riproduzione è di tipo sessuale con fecondazione interna. La maggior parte dei crostacei marini sono bentonici deambulanti grazie a 10 zampe (Decapodi), tra questi gamberi, aragoste, paguri e granchi. Altri si abbarbicano su un substrato duro, fisso o mobile come cirripedi e i balani.

Briozoi

I briozoi sono condomini di piccoli organismi chiamati zoidi; sono coloniali come gli antozoi, le loro strutture sono fatte di calcite e tessuti cornei, ottenute sovrapponendo o affiancando migliaia, e fino a milioni, di cellette. In esse si rifugiano gli zoidi facendo fuoriuscire solo il lofoforo, un organo tentacolato che ha lo scopo di catturare il cibo.  Il materiale che costituisce la struttura è molto fragile (contrariamente a quelli solidi di madrepore e coralli), ma è in grado di ricoprire con strutture planari qualsiasi substrato duro o morbido (come i rizomi e le foglie della posidonia), o  creare strutture tridimensionali. Queste ultime, pur essendo molto delicate, sono varie e splendide, dei merletti (Reteporella mediterranea) o strutture arborescenti dicotomiche (Myriapora truncata) che abbelliscono le volte protette di anfratti e grotte.
La riproduzione dei singoli zoidi è sessuale mentre quella delle colonie avviene per scissione. Il sistema nervoso dello zoide è molto semplice e manca di sensori ambientali, mentre esiste un sistema nervoso coloniale che mette in comunicazione tutti gli zoidi e spartisce i compiti.  I briozoi sono diffusi in tutti i mari e negli oceani. Nelle scogliere coralline intertropicali la loro importanza relativa è minima, ma diventa fondamentale nel Mediterraneo dove la crescita dei coralli è lenta.

Echinodermi (con pelle di spine)

Tra gli Echinodermi troviamo stelle marine, ricci, oloturie, crinoidi e ofiure.
Dotati di simmetria pentaraggiata, hanno la bocca e l’ano rivolti in posizione opposta. Lo scheletro calcareo è disposto sotto una cute, nei ricci è formato da piastre unite rigidamente, mentre nelle stelle è articolato per permettere il movimento delle braccia. La riproduzione è sessuata esterna, tramite immissione di gameti maschili e femminili nell’acqua, le larve vanno alla deriva come plancton per poi posarsi dopo alcune settimane e iniziare la fase adulta. Gli Echinodermi si muovono, mangiano e respirano grazie ad un sistema idraulico centralizzato al quale afferiscono i pedicelli ambulacrali responsabili del movimento e della ricerca del cibo. Ricci, oloturie e alcune stelle sono filtratori, mentre altre stelle e ofiure sono carnivore, i crinoidi, invece, si cibano di piccoli celenterati come idrozoi e polipi coralligeni.

Le stelle

Le stelle hanno cinque o più braccia di diversa lunghezza, nella parte inferiore di ciascun braccio c’è un solco e tutti e cinque confluiscono alla bocca. Nel solco sono posizionati i pedicelli per la deambulazione e il trasporto del cibo alla bocca. In alcune specie ai lati dei solchi si trovano delle spine per la protezione dei pedicelli. Si alimentano con molluschi, crostacei e altri Echinidi.
Lo scheletro è formato da placche calcaree unite da un tessuto muscolare che permette la mobilità. Sono in grado di rigenerare le braccia mancanti.

I ricci

I ricci possono avere una forma sub-sferica (regolari) o appiattita (irregolari). I primi sono adatti a vivere sul substrato duro, hanno aculei lunghi e rigidi per la difesa e pedicelli che fuoriescono dalla teca per il movimento e la ricerca del cibo. Gli aculei dei secondi sono corti e morbidi adatti a non intralciare l’operazione d’infossamento all’interno dei sedimenti dove questi ricci vivono normalmente. I pedicelli servono, anche in questo caso al movimento e alla ricerca di cibo.
Nei ricci regolari l’apparato masticatorio, composto di cinque denti, è sorretto all’interno della teca da una struttura carbonatica chiamata lanterna di Aristotele.

Le oloturie

Le oloturie assomigliano a un cetriolo con la disposizione di bocca e ano ai lati opposti del corpo. Deambulano o s’infossano lasciando scoperta solo la bocca, si nutrono filtrando la materia organica dal sedimento o catturando plancton con piccoli tentacoli. Si muovono attraverso l’azione di pedicelli o, se questi mancano, per contrazioni muscolari ripetute. Al loro interno abita un piccolo pesce simbionte. Alcune oloturie si difendono emettendo dall’ano dei filamenti appiccicosi analoghi alle aconzie delle attinie, ma al contrario di queste non sono urticanti. Il loro scheletro è costituito da numerose placchette di calcite non saldate tra loro per permettere un movimento fluido.

I crinoidi

I crinoidi hanno la stessa capacità delle stelle di rigenerare le braccia.
Alcune specie vivono in ambienti molto profondi dove si radunano in grandi colonie fissandosi al fondo con un peduncolo, mentre quelli che vivono prossimi alla superficie assomigliano alle stelle e deambulano soprattutto la notte quando vanno a caccia. I crinoidi o gigli di mare sono formati da una teca centrale dalla quale dipartono molte braccia in numero multiplo di cinque. Le braccia hanno pinnule che servono per catturare il cibo. Nella teca sono presenti l’ano, la bocca e i cirri, filamenti uncinati che servono per ancorarsi nel fondo. Le braccia sono formate da una moltitudine di articoli molto fragili e tenuti insieme da legamenti.

Le ofiure

Le ofiure assomigliano alle stelle, hanno cinque braccia sottili e fragili che si staccano da un corpo centrale a forma pentagonale ben leggibile. Si cibano di piccoli molluschi e crostacei.

Cordati

Tunicati (aventi una tunica)

I Tunicati possiedono, nelle prime fasi di vita, una struttura dorsale e, per tutta la vita, una corda nervosa che corre lungo il dorso come il nostro midollo spinale, per questi motivi sono stati inseriti tra i Cordati. Il loro nome deriva dalla pellicola che li ricopre e protegge, la sua consistenza è variabile, può essere da molto molle a cuoiosa. Possono essere planctonici o bentonici solitari (ascidiacei), o costituenti comunità molto estese. Gli elementi singoli mostrano due aperture, una disposta in alto lungo l’asse longitudinale, l’altra sul fianco, si tratta di due sifoni uno inalante l’altro esalante, attraverso i quali il tunicato si alimenta catturando piccole particelle di plancton. In caso di comunità la tunica e il sifone esalante sono in comune, mentre rimangono personali i sifoni inalanti. Per ogni soggetto, all’interno del sifone inalante c’è una faringe che ha lo scopo di trattenere le sostanze nutritive che si attua tramite il cestello brachiale. L’alimentazione è a base di plancton e possiedono un sistema nervoso semplice. Sono organismi che somigliano molto alle spugne, in alcuni casi l’unico modo per distinguerli e fare ombra su di essi. La spugna non avrà nessuna reazione, mentre i tunicati tenderanno a richiudere i loro sifoni per proteggersi.
I tunicati hanno colorazioni molto vivaci e possono essere trasparenti. La maggior parte è ermafrodita, la riproduzione avviene per dispersione in acqua dei gameti maschili e femminili. Le larve così formate, dopo un periodo trascorso come plancton, si fissano al fondo per colonizzarlo.

Il promontorio di Portofino

Il promontorio di Portofino è una propaggine rocciosa che s’incunea nel Mar Ligure.
Le sue peculiarità naturali, storiche e antropiche hanno consigliato, in un primo momento, la formazione di un Parco Regionale, per la parte emersa, e di un’Area Marina Protetta, per la parte sommersa. Dal Dicembre 2017 è stato istituito il Parco Nazionale di Portofino che include le due entità precedenti. Il promontorio di Portofino ha una grande importanza nell’ambito mediterraneo in quanto è un habitat di pregio che ospita specie poco comuni e in grande quantità.
Le finalità del Parco sono molteplici, tra queste: la protezione ambientale, valorizzazione risorse biologiche e geologiche studio e divulgazione delle sue peculiarità biologiche ed ecologiche, ricerche scientifiche geologiche e biologiche, gestione dello sviluppo socioeconomico sulla base delle attività umane storiche. L’area del Promontorio è quindi interessante per geologi e biologi ai quali si aggiungono antropologi e storici. Gli antichi insediamenti, le coltivazioni in fasce e le strutture comuni, quali mulini e frantoi, così come porticcioli e tecniche di pesca, testimoniano la stretta relazione che intercorreva, e intercorre, tra l’uomo e il territorio. Inoltre San Fruttuoso, Camogli e Portofino, conservano edifici di grande importanza storica.
Tutti conoscono le innumerevoli vie escursionistiche che qui si sviluppano in ogni direzione, ma pochi sanno che altrettanti percorsi sommersi si trovano nei fondali prospicenti le falesie che raggiungono rapidamente i -50 metri di profondità. Il clima mite fa sì che il Parco sia frequentato dagli escursionisti per tutto l’anno. In estate sono preferiti i sentieri ombreggiati dell’interno, nell’inverno quelli più soleggiati e aggettanti sul mar Ligure.  La base geologica del Parco è molto semplice perché costituita da due formazioni, i Calcari del Monte Antola a Nord (90-55 Ma) e i Conglomerati di Portofino (45 – 20 Ma) a Sud.
I conglomerati hanno condizionato l’intera morfologia del promontorio a causa della loro resistenza meccanica superiore, rispetto ai Calcari del Monte Antola. Le mareggiate che per 20 milioni d’anni hanno battuto con i loro frangenti queste coste, hanno via via eroso i “teneri” calcari trovando invece una strenua resistenza nei conglomerati. In questo modo la costa è retrocessa ai lati di quello che oggi è il Promontorio di Portofino. Le cittadine di Camogli e Santa Margherita sono state edificate sui Calcari dell’Antola, dove questi confinano con il massiccio conglomeratico.
Le caratteristiche meccaniche del conglomerato si deducono facilmente dalla breve distanza, circa 1 Km, tra il punto cacuminale (600 mt) e la costa e dalla morfologia verticale e dalla presenza di profonde diaclasi che creano grotte più o meno profonde.
Nel Parco vegetano più di 900 essenze vegetali, alcune delle quali endemiche per le peculiarità del clima e della geomorfologia. I pescatori di Camogli e Santa Margherita praticano la pesca del pesce azzurro come il tonno, l’acciuga e la sardina con tonnara e lampara e non mancano le barche che si dedicano allo strascico profondo. Nei fondali attorno al promontorio di Portofino le praterie di Posidonia oceanica  si sviluppano all’interno delle baie e lungo i versanti di Ponente e levante dove il pendio risulta più dolce. Questa pianta è considerata un ottimo indicatore di qualità dell’ambiente marino. La biocenosi marina del parco e molto delicata con un eccezionale ricchezza di specie ed una elevata biodiversità. A partire dal 2007 la biocenosi di Portofino si è arricchita di un alga la Caulerpa racemosa un’alga verde originaria del Mar Rosso.
Le acque dell’Area Marina Protetta sono state divise in tre zone: A, B e C.  La zona A è centrata sulla Cala dell’Oro, è una Riserva Integrale dove sono possibili solo immersioni scientifiche o di soccorso. La zona B che va da Punta Chiappa a Portofino è più accessibile, infatti si possono fare immersioni accompagnati da  guide autorizzate, mentre gli ancoraggi sono possibili solo sulle boe predisposte. Le zone C si estendono ai lati del Promontorio verso Camogli e Santa Margherita; qui le immersioni e la pesca sportiva sono libere. Nella zona B sono stati istituiti 20 percorsi subacquei che permettono di entrare a contatto con un mondo parallelo a quello della superficie, con organismi planctonici, nectonici e, soprattutto, bentonici. Il plancton visibile è rappresentato da meduse, ctenofori e da rare colonie di tunicati chiamate Salpida. Il necton è ben rappresentato da delfini, pesci luna, ricciole, dentici, orate, spigole, barracuda, serra, saraghi, salpe e da rare tartarughe. Il bentos è la vera meraviglia dell’Area Marina Protetta: gorgonie, alcionari, corallo rosso, madreporari, spugne e briozoi si elevano dalle pareti rocciose ricoperte da spugne e briozoi incrostanti di colori incredibili per varietà e brillantezza. In questo mondo magico si muovono nudibranchi, vermi, gasteropodi, ricci, stelle e crinoidi sotto il controllo di donzelle, triglie, ghiozzi, bavose e delle grandi cernie. Immergersi in queste acque è come entrare in un mondo fantastico fatto di forme, colori e vita.

DISPENSE di GEOlOGIA e BIOLOGIA MARINA............................................................................. 1
Elementi di geologia.......................................................................................................................... 1
Da Pangea a oggi............................................................................................................................... 2
Pangea diventa instabile............................................................................................................... 3
Conclusioni.................................................................................................................................. 4
L’oceano........................................................................................................................................... 4
Come si forma un oceano............................................................................................................. 4
La forma dell’oceano.................................................................................................................... 4
La zonazione degli oceanici.......................................................................................................... 5
Gli ambienti di un oceano............................................................................................................. 5
Le correnti oceaniche.................................................................................................................... 9
Il Mediterraneo................................................................................................................................ 9
Generalità..................................................................................................................................... 9
Storia.......................................................................................................................................... 10
Come è fatto............................................................................................................................... 11
Le correnti marine...................................................................................................................... 11
Il clima........................................................................................................................................ 11
Gli aspetti biologici.................................................................................................................... 12
Le grandi civiltà.......................................................................................................................... 12
L’uomo e la vita in fondo al mare................................................................................................... 12
L’inizio della vita sul pianeta..................................................................................................... 13
Ecosistema................................................................................................................................. 13
Condizioni fisiche dell’ambiente marino.................................................................................... 14
Condizioni biologiche dell’ambiente marino.............................................................................. 16
Il metabolismo, come “funzionano” gli organismi marini........................................................... 18
Le classificazioni............................................................................................................................ 20
Il plancton (dal greco vagante)................................................................................................... 20
Il necton (dal greco natante)....................................................................................................... 21
Il necton: componenti................................................................................................................ 22
Il benthos (dal greco profondo).................................................................................................. 23
Chi abita il Benthos.................................................................................................................... 23
I vegetali..................................................................................................................................... 24
Mondo Animale.......................................................................................................................... 25
Invertebrati................................................................................................................................. 25
Cordati....................................................................................................................................... 32
Il promontorio di Portofino........................................................................................................... 32


Bibliografia

AA.VV. Wikipedia
AA.VV. 2012. Praterie a fanerogame marine. Quaderni Habitat
AA.VV. 2012. Biocostruzioni marine. Quaderni Habitat.
Argenti L., 1991. Nel mare: introduzione alla biologia marina.Trainito E., Baldacconi R. 2014. Atlante di flora e fauna del Mediterraneo. Il Castello
Doneddu M., Trainito E., 2010. Conchiglie del Mediterraneo. Il Castello
Trainito E., Doneddu M., 2014. Nudibranchi del Mediterraneo. Il Castello
Trainito E., 2015. Alghe e fanerogame del Mediterraneo. Il Castello
Louisy P., 2006. Pesci marini d'Europa e del Mediterraneo. Il Castello
Riedl R., 1991. Fauna e flora del Mediterraneo. Franco Muzzio Editore
Boyer M. 2011. Atlante di flora e fauna del reef. ll Castello
Danovaro R., 2013. Biologia Marina. Città studi Edizioni
Cognetti G., Sarà M., Maguzzù G., 2004. Biologia Marina. Calderini.
Trainito E., Baldacconi R. 2016. Coralli del Mediterraneo. Il Castello.
Baldacconi R., Trainito E. 2013. Spugne del Mediterraneo. Il Castello.
Mojetta A., 2005. Mar Mediterraneo. Le guide White star















Qualche mese fa, dietro richiesta del circolo fotografico dell'Università di Genova, tenni una conferenza sulla creatività in fotografia. Lo scritto che segue è la trascrizione di quanto ho detto in quell'occasione. 


LA CREATIVITA’ in fotografia
Di: Sergio Sarigu
Viviamo in un momento storico nel quale il superlativo assoluto è norma e non eccezione. Non
sfuggono a questa regola le definizioni di creatività e di creativo. Oggigiorno tutti sembrano
creativi, da chi cuoce due fagioli a chi scala le montagne, non si fa più uso di questi termini, ma un
abuso. In realtà i creativi sono davvero pochi.
Creare è un’attività umana che germina e si sviluppa nel nostro cervello che utilizza gli istinti
congeniti e tutte le conoscenze pregresse. Il creare si attua quindi in due momenti, quello razionale
che mette in gioco conoscenze ed esperienze, e quello irrazionale legato a istinto e invenzione. Il
creare nasce dalla necessità di esprimersi o di risolvere un problema. Chi crea ha cognizioni di base,
pulsioni inconsce, sensibilità superiori e un minor numero di freni inibitori. Il frutto del creare è
arte, artigianato o tecnologia. A grandi linee si può dire che nell’arte è prevalente il valore emotivoestetico,
nell’artigianato quello pratico-estetico, in quello tecnologico il valore pratico. L’uomo e la
donna creatori si riconoscono e sono riconoscibili in ciò che fanno, trovano linfa vitale nelle poesie
che scrivono, nelle case che costruiscono e nelle fotografie che riprendono. Il risultato del creare
non sempre è lodevole, come nel caso della progettazione degli ordigni bellici.
Avete mai conosciuto un creativo? Era quel ragazzino che in classe era sempre attento, alzava la
mano per rispondere, voleva essere sempre interrogato mentre gli altri spostavano a terra lo sguardo
per non essere visti.
Creativi sono gli artisti e gli artigiani che con le mani e il pensiero creano oggetti d’arte e d’uso
quotidiano, mentre altri, pur lavorando, non sono creativi.
Un esempio è il confronto tra un falegname e un operaio che lavora in un mobilificio tipo Ikea.
Quando il falegname riceve l’ordine per un tavolo, per esempio, deve mettere in gioco tutta la sua
esperienza per prendere le misure, definire il tipo di legno da usare in funzione dell’uso e
dell’ambiente dove risiederà il mobile, definire i pezzi che lo comporranno e che incastri dovrà fare
per tenerli assieme. Infine dovrà pensare a come rifinirlo. L’operaio IKEA entra in fabbrica prende
un pannello di laminato da una pedana, lo mette in una macchina che lo lavora dopodiché lo mette
su di un’altra pedana. Il primo è un artigiano che crea un oggetto grazie alla sua conoscenza ed
esperienza, il secondo è un operaio che esegue un lavoro ripetitivo poco appagante, in qualche
misura alienante.
Deve essere chiaro che c’è una differenza fondamentale tra chi crea artigianato e chi arte. L’artista
arricchisce la sua opera materiale con significati intrinsechi dipendenti dalla propria sensibilità. In
questa sede ci occuperemo solo di creativi, artisti e, nello specifico, di fotografi.
Il creativo è una persona che sa rischiare, che non vuole il consenso a tutti i costi perché la ricerca
del consenso produce solo prodotti conformi, già visti.
“ …Se il tuo stile assomiglia a quello di un altro, non sei nessuno”. Ray Charles
Il creativo non ha il problema d’avere idee, le ha e basta, il suo talento lo porta poi a realizzarle;
Picasso diceva “ Io non cerco, trovo”.
La creatività è un modo personale di realizzare un’idea. Un creativo fa opere riconoscibili perché
segue i suoi gusti mettendo in atto tecniche e approcci autentici e unici. Il gusto è come il talento,
entrambi fanno la differenza tra chi crea e chi no. Nel gusto rientra anche il processo di
eliminazione del superfluo per lasciare solo ciò che è significativo.
I creativi non hanno paura del confronto, di perdere ciò che possiedono, nel confronto culturale si
può solo accrescere la propria capacità talentuosa.
La creatività è una luce che si accende senza preavviso risalendo dal subconscio ed è inspiegabile
anche per il creativo. Quando questa luce si accende la si deve accogliere e sviluppare affinché
possa generare un’opera. Se la si abbandona, anche per un solo attimo, possiamo perderla. La luce
nasce nel silenzio di una notte insonne, allora bisogna alzarsi dal letto per annotarla sul primo pezzo
di carta che capita tra le mani. Più la luce è “strana” più la si deve amare e credere il lei affinché,
parafrasando Toscani, “… il colore diventi linea, la linea diventi forma e l’insieme di quelle forme
diventi Guernica.”
Come abbiamo capito dall’esempio del falegname, non si può essere creativi se prima non si è
padroni assoluti della tecnica e dei mezzi che stanno alla base del fare.
Entriamo quindi in argomento e parliamo di creatività in fotografia che è l’oggetto del nostro
incontro.
L’evoluzione di un fotografo passa attraverso tre momenti
1) acquisizione dei concetti di base (tempi di scatto, apertura dei diaframmi e sensibilità ISO) e
della propria attrezzatura
2) composizione dell’immagine e dominio della luce
3) creazione di nuove e personali proposte fotografiche materializzando idee e intuiti.
Solo quando si è padroni della tecnica si ha la sensazione che si apra una finestra su di un mondo
pieno di possibilità. E’ una sensazione di gioia, come di desideri che si possono esaudire.
Ma che cos’è un’immagine creativa? La risposta non è facile perché ha in nuce l’idea di arte con i
suoi aspetti di universalità e soggettività. L’immagine creativa è originale, una nuova proposta
tecnica ed espressiva che esprime bellezza, con rappresentazione di soggetti astratti e/o simbolici; è
un’immagine che attrae e che fa riflettere.
A volte facciamo foto tecnicamente perfette con giusta luce, inquadratura, soggetti giusti, ma tutto
ciò non soddisfa, manca l’anima all’immagine. Se avessimo puntato l’obiettivo poco più in là in un
altro punto dell’ambiente forse avremmo potuto riprendere una scena più coinvolgente e
significativa. Avere lo sguardo indagatore, guardare prima di riprendere, capire in anticipo la forza
delle immagini che si prospettano, è sintomo di creatività.
Un’immagine prodotta solo su basi tecniche ed estetiche sarà un prodotto buono ma non originale.

Fenicottero: foto bella (foto Sarigu)                                  Foto intrigante

La foto di sinistra non ha niente di creativo, ma è bastato ribaltarla per creare un significato
implicito, il ribaltamento di una convinzione comune o della morale per esempio.
Fotografare significa emozionarsi, innamorarsi. La creatività è una capacità che bisogna allenare
come si allena un corpo, con metodo e costanza. Non accontentarsi mai dei giudizi favorevoli di
amici e parenti, ma giudicare severamente le proprie immagini. Bisogna stare attenti ai dettagli per
essere precisi.
Molte volte si discute tra fotografi sul valore e significato dei termini creare e cogliere. Alcuni
sostengono che una foto creativa sia quella colta al volo, come per esempio il miliziano di Capa.

In questi casi bisogna avere una fortuna sfacciata e la capacità di cogliere al volo l’attimo fuggente.
Inoltre non è detto che tutte le immagini che nel passato ci hanno “venduto” come “colte al volo”
siano tali. E’ il caso del bacio di Doisneau che, come lo stesso autore dichiarò, fu un’immagine
costruita con due fidanzati consenzienti.

Altri invece sostengono che l’immagine creativa debba essere frutto di un progetto architettato in
seguito ad un’idea.
Le prerogative che deve avere un creativo sono convinzioni comuni a fotografi come Oliviero
Toscani, Michael Orton e Bryan Peterson. Di seguito riporto quelle che sono, secondo questi tre
grandi fotografi, le qualità fondamentali che deve avere un fotografo per essere creativo.
Oliviero Toscani: istinto, immaginazione e progetto da seguire (per realizzare un sogno)
Michael Orton: visione, immaginazione e passione
Bryan Peterson: ispirazione, immaginazione e progetto
Istinto, visione, ispirazione: caratteristiche genetiche ed esperienziali fondamentali per creare
Immaginazione: vedere in anticipo, capacità in via di estinzione
Progetto: fondamentale, si base sulle conoscenze tecniche
Passione: è il sentimento che spinge comunque a creare
Orton non menziona espressamente il progetto, ma se si consulta il suo libro “La visione creativa in
fotografia” si capisce che tutte le sue opere sono dovute a un progetto ben definito.
Sulla base di quanto detto prima, un fotografo creativo produce immagini innovative, costruite a
partire da una idea originale, un istinto, e queste sono riconoscibili fra mille a prescindere dalle
etichette e didascalie.
L’istinto è un sentimento animale, primordiale, che si basa sulle esperienze pregresse ed è alla base
delle idee che generano immagini creative siano esse progettate o colte rubando l’attimo. L’istinto è
la linea di separazione tra i fotografi creativi e quelli no; chi ha queste illuminazioni deve essergli
fedele. L’amore per se stessi, la paura di sbagliare, la voglia di provocare, non avere inibizioni sono
tutte condizioni essenziali per essere creativi; chi ama conformarsi ad una moda non sarà mai
creativo.
Parafrasando Toscani: “ …l’opera creativa è un sogno che si realizza, ci rende partecipi e ci fa
riflettere su ciò che sta rappresentando sia in modo esplicito o implicito”.

Nella foto di Toscani che ritrae un guerrigliero africano ritratto di spalle che ha un fucile mitragliatore a 
tracolla ed un femore umano stretto tra le mani, descrive tutta la storia dell’uomo da quattro milioni di 
anni fa a oggi. Prende in prestito l’idea di Kubrick in “2001 Odissea nello spazio”, mette in mano al 
guerriero che già imbraccia un mitragliatore, l’arma primordiale, un femore. Il guerriero è africano così 
come i nostriprogenitori. 
In altre parole l’uomo non ha ancora sopito i suoi istinti bestiali. Tutto questo Toscani
lo dice con una fotografia dimostrando di essere un creativo incredibile.
Come detto dai grandi fotografi, la creatività è anche immaginazione, una capacità che tanti giovani
in questi ultimi tempi stanno, purtroppo, perdendo a causa delle nuove tecnologie che rubano tempo
lasciando poco spazio al pensiero libero. Ciò è un grave danno perché c’è chi afferma che il futuro
di un popolo dipende dalla sua capacità d’immaginare. L’immaginazione alimenta la creatività e si
alimenta di essa, come quando si guarda un quadro, una foto, un paesaggio, o il pescivendolo che
lavora nel suo banco.
Molti fotografi creativi come Toscani, Capa, Dorothea Lange…sono stati o sono affezionati a
rappresentare condizioni e stati d’animo umani così come i pittori Bacon e Freud. In tutte le opere
di questi artisti si leggono sentimenti e stati d’animo espressi in modo personale, riconoscibili tra
mille e da esse trasuda la certezza di una esecuzione pregevole.
Al soggetto della condizione umana si rifanno certamente i fotografi di guerra; il loro è un mestiere
difficile date le condizioni nelle quali devono operare, ma anche in questo caso solo pochi di essi
sanno concentrare in una immagine il dramma di un’etnia o di una nazione. Tutto avviene
attraverso la contestualizzazione del soggetto, la sua espressività e nel tempo di frazione di secondo.
Quell’immagine darà a tutto il mondo il senso di sofferenza, di impotenza che una guerra produce.
Immaginiamoci ora in un atelier fotografico nella moderna e pacifica New York dove un fotografo
si candida a trasmettere le stesse sensazioni attraverso una foto eseguita in studio. Cosa gli
suggeriranno il suo intuito, immaginazione e progetto? Oliviero Toscani risponde fotografando una
maglietta e un paio di pantaloni mimetici sporchi di sangue. Erano quelli indossati da un soldato
bosniaco quando fu colpito a morte.

Questa semplice foto ci trasporta immediatamente a sentire la morte, la vita che svanisce da un
corpo, e ci fa capire il diverso valore che la vita assume al cambiare delle condizioni sociali. Il
padre di Toscani era un reporter di guerra, fu lui a fotografare l’impiccagione di Mussolini a
Milano. Un giorno andò a trovare suo figlio nello studio fotografico mentre questi si accingeva a
comporre una fotografia; nel vedere tutta l’organizzazione e la profusione di attrezzature disse al
figlio: “ …era molto più semplice in guerra, inquadravi il morto o il carro-armato in fiamme ed il
gioco era fatto, qui c’è un caos terribile per una foto”.
In questa frase c’è racchiuso il concetto di foto creativa come figlia di un’idea, un progetto e una
capacità tecnica completa.
Il fotografo giapponese Araki Nabuyoshi propone una terza via per l’espressione creativa in
fotografia ed è, quella che io chiamo, la via dello scatto compulsivo. Se ho ben interpretato Araki,
penso che lui entri in trance scattando ripetutamente in modo che le porte della sua anima si aprano
per far uscire la sua sensibilità. Egli dice a proposito della sua fotografia:
“…La fotografia è solo un punto di un momento, è come fermare il tempo, tutto viene concentrato
in quell’istante innaturale. La fotografia possiede una specie di realtà che è quasi illusione, ma se
si continua a creare questi punti essi formeranno una linea che riflette la tua vita questo è quello
che inconsciamente penso mentre faccio scattare l’otturatore ed accumulo questi punti”.
Quando Araki dice “…La fotografia possiede una specie di realtà che è quasi illusione…” penso
che si riferisca al fatto che una immagine può anche rappresentare una realtà che non esiste, ma che
sia implicita nel nostro essere.
Nabuyoshi Araki

Due fotografi genovesi, Robbiano e Iacono
Lorenzo Robbiano
Lorenzo Robbiano lavora sul terreno, selezionando quel particolare dettaglio del mondo che
soddisfa la sua necessità espressiva. Le sue immagini sono equilibri geometrici che Lui riconosce
negli spigoli delle case, nei muri antichi e nelle finestre, ma la geometria è solo una struttura
criptica che riveste con forme e colori che solo un animo sensibile come il suo può cucire. I varchi
verso cieli e paesaggi che inserisce nelle immagini sono aperture verso il suo mondo interiore fatto
di equilibri e certezze più che di contraddizioni.

Carla Iacono
Iacono dice a proposito del suo processo creativo: “…Il processo creativo nasce da un’intuizione,
può essere uno sguardo, un ricordo, la lettura di un libro o la visione di un’immagine. Da un lato
c’è la volontà di esprimere le proprie idee, di raccontarsi; l’arte è un lusso, per certi aspetti,
perché ti permette di dire ciò che realmente vuoi e ti da un grande senso di libertà; hai in mano
uno strumento potentissimo! Io traggo spesso ispirazione dalla letteratura, dal cinema e dalla
psicanalisi….” 1
Le immagini di Carla Iacono percolano tra le maglie delle corazze che indossiamo e così arrivano a
contatto con i nostri sogni segreti, i ricordi migliori e le aspirazioni inespresse, nel livello più intimo
delle nostre anime, e ci lasciano attoniti.

Bibliografia
M. Orton, La visione creativa in fotografia (Reflex 2004)
B. Peterson,
O. Toscani, Creativo sovversivo (Salerno 2008)
O. Toscani, Dire fare baciare (Rizzoli 2016)
1 Da: La fotografia di Carla Iacono; Un meraviglioso mondo di fantasie, incubi e fiabe.
Martina & Chiara incontrano Carla Iacono nel ristorante Cavo a Genova.



CORSO DI FOTOGRAFIA
Docente: S. SARIGU
DISPENSE
Introduzione
La fotografia è una risposta alla necessità dell’uomo di comunicare con i suoi simili. E’ probabile
che la prima forma di comunicazione sia stata la telepatia, poi sono stati i gesti, la voce, i graffiti e i
dipinti del Paleolitico. Nel Neolitico è stata messa a punto la scrittura, un’invenzione magica per
mezzo della quale le idee si sono trasformate in segni grafici, in parole trasmissibili in tempi e
luoghi lontani. Dopo di che libri giornali, radio, televisione, fotografia, e internet sono state
semplici conseguenze. Oggi, nell’era di internet o della comunicazione globale, possiamo
diffondere al mondo intero e in tempo reale, qualsiasi evento, sia esso lo scoppio di una guerra o ciò
che abbiamo mangiato la sera prima. Attraverso le pagine della rivista National Geographic
abbiamo visto gli esquimesi dentro gli igloo, la dorsale medio-oceanica con i suoi soffioni neri, gli
indios cacciare i bradipi; tutto ciò grazie alla fotografia.
La fotografia nasce nel 1839 contemporaneamente in Francia (Daguerre; produzione diretta di un
positivo) e Inghilterra (Talbot; produzione di un negativo) e, fin da subito, assunse il compito di
documentare cose, persone, luoghi e momenti storici. La prima conseguenza fu la rivoluzione della
pittura. I tempi erano ormai maturi affinché la pittura potesse dedicarsi alla rappresentazione degli
stati d’animo degli uomini, anche alla luce della nascente scienza della psicoanalisi; quest’ultima
introdusse il concetto d’inconscio, la parte più nascosta dell’uomo.
La parola fotografia ha origine nella composizione di due parole in greco antico, foto φωτός = luce
e grafia γρα􀀀ία = scrittura, disegno, traducendo: disegno fatto con la luce.
Il fotografo è quindi colui che scrive e/o disegna con la luce.
Entrando in intimità con la fotografia pian piano si acquisisce la consapevolezza che è proprio la
luce, con tutte le sue forme e modifiche fisiche, che gestisce tutto ciò che fotografiamo.
Ogni volta che penso alla fotografia immagino l’uomo che prende la luce con le mani per poi
spalmarla sulla carta utilizzando tutte le sue intensità e colori.
Quando scattiamo una fotografia fermiamo per sempre il tempo del soggetto e della scena che
abbiamo ripreso. La baia assolata o il bambino in fasce saranno sempre tali anche fra mille anni.
La fotografia è una forma di comunicazione utilizzata in tutte le attività dell’uomo, dalla
documentazione famigliare e storica alla ricerca scientifica, dal giornalismo all’intrattenimento fino
ad arrivare all’arte.
Seguendo questo corso di fotografia vorrei che usciste dall’ambito fotografico strettamente
famigliare per approdare a una dimensione espressiva personale e intima, che facciate fotografia
oltre che per riprendere nipotini e figli anche per esprimere voi stessi attraverso le immagini.
Fare una buona fotografia è una ricetta le cui componenti sono passione, conoscenza tecnica e
teorica, esperienza e, in minima parte, attrezzatura fotografica. Non è quindi vero che per fare una
bella foto bisogna avere una macchina professionale; se siamo fotografi banali, continueremo ad
esserlo anche con una macchina super costosa, ma se dietro uno scatto c’è passione, conoscenza ed
esperienza, allora anche un cellulare basta per fare delle ottime fotografie.
Non dimentichiamo poi che le macchine costose sono anche più complesse da far funzionare.
La macchina fotografica
La macchina fotografica è un oggetto costituito da due blocchi fondamentali, obiettivo e corpo
macchina. All’interno dell’obiettivo è inserito il diaframma, mentre dentro il corpo macchina si
trovano l’otturatore e il sensore; quest’ultimo è il supporto sensibile alla luce.
Obiettivo
L’obiettivo è costituito da lenti disposte su di un unico asse all’interno di un cilindro mobile. Le
lenti convogliano e allineano la luce.
All’interno dell’obiettivo è sistemato il diaframma; anch’esso posizionato sull’asse delle lenti,
detto anche: asse ottico.
Le lenti di un obiettivo si muovono per mettere fuoco il soggetto da fotografare e per variare la
focale nel caso si tratti di un obiettivo zoom.
Gli obiettivi si dividono in fissi e variabili detti anche zoom, e per le loro caratteristiche possono
essere grandangoli, normali e tele.
I grandangolari riprendono una scena (angolo di ripresa) superiore a quella che normalmente si
percepisce con la vista: sono identificati con valori inferiori a 50 mm. I normali hanno valori
intorno a 50 mm e hanno un angolo di ripresa simile a quello della vista umana. I tele hanno angoli
di ripresa piccoli quindi riprendono solo piccole porzioni della scena, il loro valore supera i 70 mm.
Gli obiettivi zoom hanno la possibilità di variare le loro caratteristiche ottiche in modo da assumere
valori che vanno dal grandangolo al tele passando per il normale. Gli obiettivi zoom rendono più
versatile la macchina fotografica ed è per questo che sono montati su tutte le compatte.
All’interno degli obiettivi risiedono anche dei componenti elettronici ai quali è demandata la
funzione del fuoco automatico e, in alcuni casi, dello stabilizzatore d’immagine.
Diaframma
Il diaframma è un congegno circolare costituito da lamelle (normalmente 6 o 9) che muovendosi su
di un piano sono in grado di generare un foro più o meno grande.
Il diaframma ha lo scopo di regolare la quantità di luce che attraversa le lenti. Più il foro del
diaframma è piccolo, minore sarà la quantità di luce che passa; al contrario, un foro grande farà
passare una quantità di luce maggiore. Facendo un esempio idraulico si può dire che il diaframma
ha la stessa funzione del rubinetto di casa che aprendosi e chiudendosi regola la quantità d’acqua.
Il diaframma funziona a scatti, per ogni scatto si dimezza o raddoppia la quantità di luce trasmessa.
Gli scatti sono identificati universalmente con i seguenti valori:
f/1 – f/1,4 – f/2 – f/2,8 – f/4 – f/5,6 – f/8 – f/11 – f/16 – f/22 – f/32 – f/45 – f/64
nel gergo fotografico questi valori sono chiamati stop.
Allo stop f/1 corrisponde la massima apertura del diaframma, a quello f/64 la minima apertura.
I valori minimo e massimo di diaframma sono elementi che caratterizzano un obiettivo.
La funzione f/x è il rapporto tra la lunghezza focale dell’obiettivo per un valore definito, il risultato
corrisponde al diametro, in millimetri, del foro del diaframma. Se per esempio si fotografa con un
obiettivo da 100 mm e un valore di diaframma = f/2 l’apertura dello stesso diaframma avrà un
diametro di 50 mm
Corpo macchina
Il corpo macchina contiene le parti meccaniche ed elettroniche, in esso sono sistemati il sensore e
l’otturatore.
Otturatore
L’otturatore non è altro che una porta che si frappone tra la luce in arrivo dall’obiettivo e il sensore;
è costituito da tendine metalliche che si aprono e chiudono secondo le necessità.
Se non ci fosse l’otturatore non potremmo bloccare la luce che arriva al sensore.
Il tempo in cui le tendine rimangono aperte è chiamato tempo di esposizione.
I valori dei tempi di esposizione sono dati da numeri con o senza apice. I numeri senza apice si
riferiscono a frazioni di secondo (p.e. il tempo 250 si riferisce al tempo di 1/250 di secondo), quelli
con apice indicano valori di tempo in secondi (p.e. 15” si riferisce ad un tempo di 15 secondi).
Sensore
Il sensore è il corrispondente della pellicola nelle vecchie macchine fotografiche, è il componente
sensibile alla luce. Il sensore è costituito da milioni di ricettori, chiamati pixel, ognuno dei quali
riconosce colore ed intensità della luce che lo colpisce. I pixel trasformano questi dati in segnali
elettrici che vengono trasmessi ad un processore digitale il quale ricostruisce l’immagine di
partenza. L’immagine viene poi inviata alla scheda di memoria per la sua registrazione.
Elettronica
Le moderne macchine digitali hanno una parte meccanica ridotta all’osso, mentre l’elettronica è
molto sviluppata. Il componente più importante è il processore, questo è un vero e proprio
elaboratore elettronico, tiene conto di tutte le informazioni che arrivano dai sensori (distanziometro,
accelerometro, luxmetro...), per poi proporre al fotografo i valori di tempo d’esposizione,
diaframma e sensibilità da usare.
PRINCIPI BASE DI FOTOGRAFIA
Apertura del diaframma, tempo di esposizione
La luce emessa o riflessa dai soggetti che stiamo fotografando attraversa le lenti e il diaframma, poi
passa la “porta” dell’otturatore e infine impatta sul sensore imprimendo l’immagine.
Domanda:
come si può eseguire una fotografia ben esposta? Consideriamo che potremmo avere la necessità di
riprendere un soggetto ben illuminato o un paesaggio notturno.
Risposta:
bisogna dosare la quantità di luce che arriva al sensore e il tempo di esposizione.
Domanda:
ma chi ci permette di dosare la luce?
Risposta:
dosiamo la luce per mezzo del diaframma e dell’otturatore. Con l’apertura del diaframma regoliamo
la quantità di luce che arriva alla “porta” dell’otturatore, con quest’ultimo definiamo per quanto
tempo la luce impressiona il sensore.
Quindi, il diaframma e l’otturatore servono per gestire la giusta quantità di luce da far arrivare al
sensore.
La terza variabile: sensibilità del sensore
Il sensore ha la possibilità di modificare la sua capacità di acquisizione della luce, ovvero può
acquisire la luce necessaria velocemente o lentamente.
Vediamo come questa opportunità influisce sulle altre due incognite.
Se impostiamo il sensore con una sensibilità alta potremmo ridurre il tempo di esposizione (luce per
meno tempo) e/o chiudere il diaframma (ridurre la quantità di luce).
Se invece impostiamo una sensibilità bassa dovremmo aumentare il tempo di esposizione (luce per
più tempo) e/o aprire il diaframma (aumentare la quantità di luce).
L’importanza delle variabili
Ora sappiamo che per scattare una fotografia entrano in gioco tre variabili: tempo di esposizione,
apertura del diaframma, sensibilità del sensore; possiamo fissarne una e variare le altre due o
fissarne due e variare la rimanente.
Domanda: per quale motivo si ha la necessità di fissare una variabile?
Risposta: ogni variabile agisce su di una precisa caratteristiche di ripresa per cui dobbiamo
scegliere quale o quali variabili fissare in funzione delle esigenze fotografiche.
Apertura del diaframma.
Quando mettiamo a fuoco un soggetto individuiamo un piano perfettamente a fuoco (quello nel
quale risiede il soggetto stesso). Al di qua e al di là di questo piano il fuoco va via via riducendosi.
Possiamo determinare la quantità dell’intero campo a fuoco variando l’apertura del diaframma. La
porzione di scena che rimane a fuoco è detta profondità di campo (da qui in poi PDC),
dell’immagine. Più si chiude il diaframma (valori alti) più la PDC è ampia (più cose sono a fuoco, il
piano di messa a fuoco è più profondo). Se invece apriamo il diaframma (valori bassi) si riduce la
PDC (meno cose rimangono a fuoco, il piano di messa a fuoco è più sottile).
Facendo degli esempi, per fotografare un paesaggio o piccoli animali si dovrà chiudere il
diaframma per avere più PDC, per fare un ritratto si aprirà il diaframma per ridurre la PDC e isolare
il viso dallo sfondo.
Tempo di esposizione.
Il tempo di esposizione definisce per quanto tempo il sensore è completamente investito dalla luce.
Volendo riprendere una macchina da corsa lanciata a velocità elevata useremo tempi di esposizione
brevissimi, intorno a 1/1000 di secondo, se invece vogliamo riprendere un cielo stellato i tempi di
esposizione saranno dell’ordine dei minuti primi.
Sensibilità
La variazione della sensibilità ci permette di fotografare in quasi tutte le condizioni di luce.
Impostando un’alta sensibilità possiamo catturare ogni flebile sorgente o riflesso di luce, ma questo
ci costerà in termini di rumore elettronico, o grana, che avremo nella fotografia. Al contrario in caso
di luce abbondante si potrà ridurre la sensibilità per avere l’annullamento del rumore e una migliore
definizione di linee e colori.
Il triangolo dell’esposizione
Abbiamo quindi visto che le tre variabili sono strettamente connesse nell’esecuzione di una
fotografia. Infatti al variare di una di esse le altre devono a loro volta variare per ottenere lo stesso
risultato fotografico. Questa interdipendenza può essere rappresentata da un grafico a triangolo
equilatero sui cui lati risiedono le tre variabili, apertura diaframma, tempo di esposizione, sensibilità
del sensore. La parte centrale di questo triangolo è la sede delle impostazioni automatiche delle
macchine fotografiche.



Nella macchina fotografica c’è un selettore che ci permette di decidere come vogliamo fotografare,
quale o quali variabili fissare, a prescindere da ciò che essa calcola in automatico.





Il rettangolo che la foto mostra selezionato, è il comando di automatismo totale.
La lettera P (Program) indica un automatismo con qualche grado di libertà da parte del fotografo.
La lettera Tv (Time value) indica la priorità al tempo di esposizione, utile per fermare il movimento
o per renderlo visibile.
La lettera Av (Aperture value) indica la priorità ai diaframmi, utile quando si vuole decidere la
profondità di campo da dare all’immagine.
La lettera M (Manual) indica che possiamo decidere quale diaframma e tempo di esposizione dare;
in questo caso si ha la completa libertà di sovra o sottoesporre a seconda delle proprie scelte.
Le icone sono condizioni fotografiche preinstallate a seconda dei soggetti come macro, sportive,
notturne, ritratti o filmati.
La sensibilità del sensore si regola con il pulsante chiamato ISO.
COMPOSIZIONE FOTOGRAFICA
Una buona fotografia è fatta da uno o due soggetti che devono essere disposti in punti strategici del
fotogramma.
I soggetti possono essere reali, (persone, paesaggi, barche, animali, fiori) o astratti (condizioni
socio-culturali, sentimenti…) ma anche questi utilizzano soggetti reali. La giusta disposizione dei
soggetti reali è condizionata dalla nostra abitudine di leggere da sinistra a destra e dall’alto verso il
basso. Per questi motivi individuiamo alcuni punti forti su cui posizionare i o il soggetto.
In questo corso andiamo ad esporre tre modi per la disposizione del soggetto nel fotogramma:
1. regola dei terzi
2. sezione aurea o spirale di Fibonacci
3. diagonale e triangoli.
La regola dei terzi
Per trovare i punti forti dividiamo l’area del fotogramma con due linee verticali e due orizzontali
equidistanti tra loro. I quattro incroci che abbiamo ottenuto corrispondono ai punti forti che
cercavamo.

Questa regola è una semplice trasposizione di ciò che è gradevole all’occhio e alla mente umana
riguardo la disposizione equilibrata di oggetti su di un piano.
Su questa struttura si sono basati gli architetti greci e romani, ma anche i grandi pittori di tutti i
tempi. Questa regola è adesso usata dai fotografi per disporre in modo gradevole ed equilibrato i
soggetti nel fotogramma.
Il successo di questa regola dipende in qualche misura dall’abitudine occidentale a leggere da
sinistra a destra e dall’alto verso il basso; da ciò si evince che il punto più importante sia quello in
alto a sinistra seguito da quello in alto a destra poi viene quello in basso a sinistra e per ultimo
quello in basso a destra.
Un altro suggerimento importante datoci dalla regola dei terzi e l’uso delle diagonali che passano
per i punti forti e delle quattro linee che costituiscono il reticolo stesso.
Bisogna considerare che comunque non sempre si riescono a soddisfare i quattro punti forti, le linee
dei terzi e le diagonali, la cosa più frequente è l’utilizzo di uno o due punti forti e pezzi di diagonali
e/o linee dei terzi.
La spirale di Fibonacci
La spirale di Fibonacci deriva da una funzione matematica; forma e proporzioni di questa spirale
sono già presenti in natura, ne sono esempi, il Nautilus, la disposizioni dei semi del girasole e le
brattee delle pigne, e così via.
Forse è proprio questa radice naturalistica, riconosciuta dal nostro cervello, che ci fa gradire le
immagini dove gli oggetti sono disposti secondo questa figura geometrica.
Pittori e scultori hanno utilizzato la spirale di Fibonacci per comporre la struttura dei loro dipinti e
sculture.

Disponendo alcuni degli elementi del nostro soggetto tangenti questa spirale otteniamo
composizioni molto equilibrate quindi piacevoli da osservare.

Diagonale e triangoli
In questo caso utilizziamo una delle due diagonali principali per disporre il o i soggetti e su questa
diagonale inseriamo altri elementi che si staccano da essa in modo che si formino dei triangoli tra
questi segmenti e le linee di bordo del fotogramma.


INGREDIENTI PER FOTOGRAFARE BENE
Una buona fotografia si basa su quattro elementi
• soggetto: ciò che si vuole fotografare
• tecnica: conoscenza della teoria e della propria attrezzatura
• esperienza: aver già affrontato molti problemi e condizioni sfavorevoli
• estetica: composizione, illuminazione, sensibilità e cultura personale.
Cose da sapere
LA LUCE
La fisica della luce
La luce è caratterizzata da due aspetti, qualità e direzione.
Per qualità s’intendono, caratteristiche cromatiche e diffusione.
Ogni sorgente luminosa, sia essa naturale o artificiale, ha le sue caratteristiche cromatiche; le luci
generate dal sole, dalla combustione di un gas, da una luce led, da una candela…, hanno tutte
componenti cromatiche differenti. Un oggetto assume colori diversi se esposto a fonti luminose
differenti. Mentre l’occhio umano, collaborando con il cervello, fa sì che non ci accorgiamo di
queste variazioni, la macchina fotografica le registra fedelmente. Le caratteristiche cromatiche dei
raggi solari cambiano in funzione dell’ora del giorno, della stagione e delle condizioni climatiche.
In natura la diffusione della luce è operata da nuvole e nebbie. Con il cielo sereno i raggi del sole
arrivano a noi direttamente e con un preciso angolo, ma se il cielo è nuvoloso i raggi che colpiscono
la parte alta delle nuvole vengono riflessi e rifratti prima di arrivare sulla Terra. Questo fenomeno fa
sì che i raggi giungano sulla Terra da tutte le direzioni possibili in modo che gli oggetti sono
illuminati, ma non generano ombre.
Alla direzione e verso della luce vanno attribuite le caratteristiche del l’ombreggiatura. Ad esempio
per i ritratti è meglio avere la luce proveniente dalle spalle del fotografo con un angolo di 45° da
destra o sinistra.
La luce e le sue implicazione nella fotografia
La luce è l’elemento fondamentale della fotografia, senza di essa non vedremmo e non potremmo
fotografare. Il fotografo la deve considerare come una materia plastica, che si può modellare a suo
piacimento per trasformare una immagine banale in una fotografia gradevole da vedere.
Il rapporto luce-fotografo è un legame stretto; questi deve conoscerla bene, dovrà sapere quando sorge il sole
e dove, il colore che avrà la luce e se genererà ombre.
Le condizioni meteorologiche influenzano il nostro stato d'animo; con le luci dell’alba e del tramonto siamo
più coinvolti rispetto a quelle delle ore centrali del giorno. Stati emotivi differenti ci pervadono anche nel
caso di cieli nuvolosi di tempesta o completamente sereni.
Avere queste conoscenze permette di essere nel posto giusto con le migliori condizioni di luce per scattare
quella foto che si ha nella mente.
Non sempre abbiamo il tempo per aspettare il momento adeguato, per cui si deve avere la capacità di fare
una buona fotografia in qualsiasi condizioni di luce, al limite aiutandoci con le luci artificiali.
Un buon fotografo deve scatenare pensieri ed emozioni in chi guarda le sue immagini, non soltanto con il
soggetto e la composizione, ma anche con le giuste luci.
La luce ha molti modi per presentarsi, può essere, calda, radente, raggiante, bloccata, chiaroscura,
direzionale e di riempimento.
Luce calda
È l'ora in cui il sole è basso in cielo cioè all'alba e al tramonto. La sua durata dipende dalla posizione
geografica e dalla stagione. In inverno dura più a lungo in quanto il sole è più basso. Queste condizioni di
illuminazione hanno un buon numero di fattori positivi.
1) i colori sono caldi.
2) la luce è radente, bassa sull’orizzonte.
3) si hanno tre condizioni di scatto:
controluce
luce laterale
luce alle spalle
(Questa condizione è esattamente l'opposto di una illuminazione proveniente dalla verticale, come quelle
delle ore centrali del giorno ed in prossimità del solstizio d’estate, quando i soggetti sono illuminati
dall’alto).
Colori caldi
Quando il sole è basso i suoi raggi raggiungono i nostri soggetti dopo aver attraversato
orizzontalmente l’atmosfera, a causa di ciò la luce assume toni caldi, rosa, rossi e arancioni
Luce radente
Quando una luce intensa colpisce il nostro soggetto con angoli prossimi ai 20° rispetto al piano sul quale si
trova il soggetto, si dice radente. Questa luce può essere adoperata per mettere in evidenza le strutture
architettoniche degli edifici, bassorilievi e incisioni come quelle preistoriche.
La luce radente del sole crea ombre che variano in lunghezza e direzione al variare della sua posizione in
cielo. Sta a noi decidere quale dovrà essere il disegno sviluppato delle ombre e scattare al momento giusto.
Volendo sfruttare le ombre lunghe nei paesaggi dobbiamo chiaramente scattare al mattino o nel tardo
pomeriggio, quando il sole è più basso sull’orizzonte.
Controluce
Quando la luce va verso l’obiettivo il fotografo deve affrontare una serie di problemi importanti: contrasto
elevato, formazione di silhouette dei soggetti in primo piano ed esposizione critica. Quelle in controluce
sono fotografie difficili, ma se facciamo tutto giusto possiamo ottenere atmosfere nuove e accattivanti.
In un controluce il soggetto è una silhouette con ombra chiusa, densa e ricca, se invece esponiamo bene il
soggetto (apriamo le sue ombre), lo sfondo si “brucia” essendo molto sovraesposto. Per sopperire a questa
forte differenza tra luce e ombra (alta gamma dinamica o H.D.R.) si possono adottare alcuni accorgimenti.
1) Se manteniamo l’esposizione sullo sfondo si può illuminare il soggetto con il flash.
2) Si può escludere il sole dall’inquadratura schermandolo dietro il soggetto o dietro un albero o
cartellone pubblicitario, per esempio.
3) Sfruttare i riflessi della luce su specchi d’acqua, vetrine o pannelli chiari per illuminare la parte del
soggetto rivolta alla macchina fotografica e contemporaneamente schermare il sole con il soggetto o
altro oggetto disponibile.
Controluce in materiali traslucidi.
Se fotografiamo soggetti trasparenti conviene farlo in controluce facendoli attraversare dalla luce. In questo
modo otterremo immagini inusuali quindi accattivanti.
Luce dura
La luce dura o luce di mezzogiorno si ha quando il sole è nel punto più alto in cielo per quella determinata
stagione. E’ una luce difficile per questo poco amata dai fotografi. Quando il sole è molto alto nel cielo i suoi
raggi attraversano uno strato di atmosfera minimo generando una luce dura di colore blu, a causa di ciò la
scena sarà dominata da forti contrasti tra le luci e le ombre. Se questa luce prossima alla verticale è inadatta
per i ritratti diventa ideale se vogliamo creare immagini astratte e geometriche dove anche le ombre giocano
un ruolo importante nella costruzione delle immagini. Con questa luce è bene scattare anche in bianco e nero
perché questa tecnica soffre meno dei forti contrasti ed è più accondiscendente quando vogliamo
estremizzare i toni.
La luce diventa sempre più dura man mano che si sale in quota perché si riduce lo spessore del pulviscolo
atmosferico. In montagna il cielo è blu scuro perché è ricco di raggi UV. In questi casi se si usa il
polarizzatore il cielo si scurisce ulteriormente.
Sorgente luminosa a tergo della camera
La luce proveniente dalle spalle del fotografo è una cosa non tanto comune, al contrario di quanto si possa
pensare. In queste condizioni le ombre sono rare o assenti, (quelle presenti sono dietro i soggetti e servono a
dar loro una certa profondità) anche se la luce è molto intensa. I riflessi provenienti dei soggetti arrivano
direttamente all'obiettivo, l'unico problema è l'ombra del fotografo che si deve eliminare a meno che non si
voglia fare un autoritratto dell'ombra. Si supera questo problema fotografando da distanza con un
teleobiettivo, spostandosi e scattando con l'autoscatto o aspettando che il sole si alzi un po' di più se si è al
mattino presto.
Luce grigia e diffusa
La foschia attutisce l'impatto della luce diretta riducendo le differenze tra chiari e scuri (in gergo fotografico
si dice che si riduce la differenza dinamica tra le luci e le ombre).
I cieli con nuvole basse e stratificate diffondono una luce grigia che annulla quasi del tutto le ombre; in
queste condizioni i soggetti perdono il loro volume. Gli scatti eseguiti con i cieli grigi e con i soggetti senza
volume creano un’atmosfera estatica, contemplativa e riflessiva.
Avere i soggetti bidimensionali è una condizione minimale che potrebbe impoverire l’impatto emotivo
dell’immagine; se il fotografo vuole recuperare questo svantaggio lo può fare lavorando sulla composizione
grafica, ponendo il soggetto nei punti focali dell’inquadratura sfruttando anche le linee compositive e le linee
guida.
In condizioni di luce grigia e diffusa non conviene includere il cielo perché questo sarà molto più luminoso
del terreno per cui si avranno problemi di esposizione ed i colori non potranno assumere la giusta
saturazione.
Luce grigia e cupa.
Il cielo ricco di nubi temporalesche è invece da includere nelle nostre immagini per sfruttare lo stato emotivo
che scatena.
Anche in queste condizioni siamo in assenza di forti contrasti. E’ il regno dei grigi e ne potremo leggere a
decine nel cielo e nel soggetto (in queste condizioni possiamo giocare con la gamma dinamica
dell'istogramma aumentando o diminuendo i diaframmi; in questo modo renderemo la scena solo più o meno
drammatica ).
Se con la luce grigia si mette a piovere sono da utilizzare le superfici riflettenti che si generano, la
vegetazione diventa più brillante tutta la scena acquista una maggiore nitidezza.
La pioggia crea poi linee verticali argentate e cerchi negli specchi d'acqua. La pioggia fa nascere in noi una
certa malinconia per cui possiamo sfruttarla per questo scopo.
La luce della neve
La neve è una materia che inverte il verso della luce, la sua riflessione è pressoché totale così che, nelle
giornate di sole, il terreno innevato può essere più luminoso del cielo, mentre quando è nuvoloso si hanno
luminosità simili. I soggetti fotografati sono così investiti da luce in arrivo dall'alto e dal basso.
Luce nei riflessi
Negli specchi d'acqua le fonti luminose si riflettono. In condizioni di acqua calma e o di superfici lisce, la
riflessione è massima. Tecnicamente è uno scatto molto difficile in quanto si ha un controluce con una o due
sorgenti luminose, con intensità diverse.
Una cosa da tener presente è che l'intensità della riflessione aumenta man mano che lo sguardo o la
fotocamera si abbassa; in queste condizioni di scatto è utile usare i filtri neutri per ridurre gli alti contrasti.
Se la luce del sole si riflette su di una superficie, questa diventa sorgente luminosa i cui raggi possono essere
riflessi da una seconda superficie, cioè si ha una proiezione del riflesso. È il caso delle bande luminose sui
fianchi delle barche ancorate che riflettono la luce riflessa dal mare.
Le dominanti blu della luce
In alcune condizioni di luce, le ombre appaiono blu; questo fenomeno si chiama radiazione solare diffusa.
Questo fenomeno può o non può costituire un problema, infatti lo si può sfruttare per ottenere effetti unici.
Se le dominanti azzurre possono essere sfruttate nella foto di paesaggio, nei ritratti sono terribili. L'occhio
umano neutralizza le dominanti informando il cervello dei giusti colori dei soggetti, ma la macchina
fotografica registra fedelmente ciò che rileva, comprese le dominanti.
Luce dall'alto in foresta
La luce che penetra dall’alto nella foresta diminuisce man mano che si abbassa ed i tronchi eliminano le
possibili luci laterali. In questo caso è utile adoperare un filtro neutro graduato che tolga luce alla parte alta
dell'inquadratura, equilibrandola con la quella bassa del bosco.
Dall'ambiente buio verso la luce
Chi osserva una fotografia scattata dall’interno verso l'esterno è subito attratto dai soggetti esterni.
Quest'aspetto psicologico è da tener presente nella scelta della luce e dei soggetti esterni per indirizzare lo
sguardo di chi guarda. Sono fotografie difficili perché l'alto contrasto dinamico potrebbe produrre ombre
chiuse negli interni. A questo inconveniente si può ovviare usando un flash o schiarendo le ombre in fase di
postproduzione.
Luce da finestra a nord
La luce proveniente da una finestra orientata a nord genera ombre più morbide come quelle che sono ricreate
negli studi con il soft box o i bank. In questi casi le ombre sono aperte e morbide e i confini diffusi. Sono le
luci usate del pittore olandese Vermeer.
Spalle alla porta
In un ambiente interno quando si fotografa con le spalle rivolte alla porta o alla finestra, il soggetto è ben
illuminato con poca ombra, quella che basta per dare il senso del suo volume.
I COLORI
I pittori hanno la possibilità di dipingere scene e oggetti con i colori che preferiscono; non si
può dire lo stesso per i fotografi i quali devono lavorare con i colori che i loro soggetti
mostrano in quel momento.
I fotografi però hanno la possibilità di cambiare l’inquadratura per immettere o eliminare
alcuni elementi cromatici e/o aspettare che cambi l’ora del giorno o la stagione nel caso si
tratti di un paesaggio.
I colori sono elementi molto importanti per il nostro cervello, anch’essi influenzano il nostro stato
d’animo, per cui è necessario imparare a usarli in modo favorevole nella fotografia.
In natura esistono tre colori puri che non possono essere ottenuti per miscela di altri e sono rosso,
blu e giallo; questi sono definiti colori primari. Miscelandoli a due a due otteniamo i colori
secondari, viola, verde e arancio. Possiamo disporre queste due terne in un cerchio per ottenere la
ruota dei colori ottenendo così:
1) l’alternanza di colori primari e secondari,
2) i colori complementari, cioè colori che sono diametralmente opposti, e sono giallo viola,
rosso verde e blu arancio, quindi coppie composte da un primario e un secondario
3) colori freddi in una metà del cerchio e i colori caldi nell’altra metà
Le immagini che, dal punto di vista cromatico, sono dominate da colori complementari, mostrano
un contrasto estremamente acceso ed inoltre il colore più caldo della coppia attrae maggiormente
l’attenzione di chi guarda.
Ogni singolo colore della ruota eccita negli esseri umani sensazioni comuni ed è per questo che
possiamo dividere i colori in caldi (arancione, rosso e giallo), e freddi (blu, verde e viola), in modo
universale.

LE LINEE COMPOSITIVE
Il nostro cervello è affascinato dalle figure geometriche, tanto più quanto queste sono semplici.
I segmenti o le linee sono tra gli elementi geometrici più semplici e questo fa sì che essi attraggano
il nostro interesse. La linea di confine tra cielo e mare che domina l’orizzonte di chi si siede di
fronte al mare è molto più rilassante dell’immagine della parete di un palazzone dormitorio delle
periferie metropolitane dove sono disposte caoticamente centinaia di linee. Ciò che fotografiamo è
ricco di linee più o meno evidenti. L’attenzione di chi fotografa va focalizzata sulla individuazione
e composizione degli elementi geometrici. Questi possono anche essere rappresentati da figure
geometriche più complesse come linee spezzate, curve e poligoni.
La linea dell’orizzonte, gli elementi architettonici, le costruzioni dell’uomo, elementi naturali come
gli strati rocciosi o filari di alberi o vigne sono solo alcuni esempi di queste linee.
Non dimentichiamo che anche le linee che delimitano la fotografia entrano a far parte del conteggio
generale quindi entrano in rapporto con gli elementi che noi poniamo nel perimetro che esse stesse
determinano. Per questo motivo le linee o segmenti che sono disposti parallelamente ai bordi del
fotogramma assumono una valenza maggiore, seguite dalle linee che giacciono sulle diagonali del
fotogramma.
Linee orizzontali
Le linee orizzontali trasmettono il senso di tranquillità e staticità, come i tavoli sui quali posiamo gli
oggetti e dove questi stanno fermi, o come l’orizzonte che ci rassicura. Se in una immagine
prevalgono le linee orizzontali, nel guardarla è inevitabile sentire la sensazione di tranquillità e
staticità. Chiaramente è necessario che le linee orizzontali siano perfettamente parallele al bordo del
fotogramma e possibilmente disposte secondo la regola dei terzi.
Linee verticali
Le linee verticali risvegliano la figura di moti ascendenti e/o discendenti, quindi danno
l’impressione che l’immagine sia più dinamica.
In presenza di linee verticali predominanti si è indotti a riprendere con la macchina fotografica
posta in verticale, ciò può aiutare, ma non sempre è vero. Si possono ottenere ottime immagini con
linee verticali predominanti anche tenendo la macchina orizzontale.
Anche in questo caso non si deve dimenticare di disporre gli elementi forti verticali lungo le linee
dei terzi.
Linee oblique
Le linee oblique danno profondità e dinamicità all’immagine soprattutto se sono convergenti verso
un punto lontano. Ne sono esempio le strade, i binari ferroviari, i filari di coltivazioni…
Concludendo
Le immagini che riprendiamo sono normalmente composte da linee disposte in varie direzioni, sta
alla sensibilità e tecnica del fotografo definire quali linee inserire e come devono essere disposte
all’interno del fotogramma.
LE LINEE GUIDA
Le linee guida sono linee compositive particolari in quanto conducono lo sguardo dell’osservatore
verso il soggetto. Le linee guida possono anche essere linee curve come il percorso di un fiume o di
una strada.
Una volta individuato il soggetto, per esempio una cascina nella campagna, e s’intuisce che un certo
filare di alberi può fare da linea guida, bisogna spostarsi fintanto che il filare termini in
corrispondenza del casolare. Nel caso che la luce non sia ideale, si deve aspettare o tornare in un
altro momento, quando anche le condizioni meteo e/o di illuminazione sono ideali.
LA TRIDIMENSIONALITÀ.
Le immagini fotografiche sono bidimensionali, ma si può comunque dare il senso della
tridimensionalità lavorando sulla messa a fuoco dei soggetti rispetto all’ambiente e sulla
disposizione delle ombre, ma di questo abbiamo già parlato. Nel caso dei paesaggi possiamo dare il
senso della tridimensionalità attraverso le linee guida che si perdono all’infinito, ma più
semplicemente si può inquadrare un soggetto in primo piano e mantenere a fuoco il più possibile la
scena. I soggetti possono essere rocce, animali, rami secchi… l’importante e che siano posizionati
nella parte bassa dell’immagine. In questo caso ci aiutano gli obiettivi grandangolari perché
permettono di abbracciare una grande porzione di scena e di mantenere il fuoco per grandi
profondità.
La sfocatura si usa quando eseguiamo i ritratti o oggetti che niente hanno a che fare con lo sfondo.
Il viso o l’oggetto così ripresi si staccheranno decisamente dallo sfondo dando il senso della
tridimensionalità. In questo caso è utile l’uso di teleobiettivi medi e lunghi (in caso di animali
selvatici) in quanto hanno una profondità di campo ristretta, adatta alle sfocature ricercate.
LA CORNICE
A volte capita di poter “incorniciare” una immagine scattando attraverso una finestra aperta o in
uno spiraglio tra i rami o, più raramente, attraverso un arco naturale in roccia. Solitamente la
cornice è soggetta ad una illuminazione diversa da quella del soggetto principale e ciò dà profondità
all’immagine.
STRUTTURA E RETICOLO (PATTERN and TEXTURE)
Negli ambienti dell’uomo e in natura si trovano oggetti o forme che si ripetono stando in aderenza;
fotografandoli in modo opportuno si ottengono dei reticoli che possono diventare essi stessi
soggetto. Ne sono esempi le facciate dei palazzi dormitorio delle città moderne, le cataste di
tronchi, un lastricato artificiale, i componenti di una spiaggia ciottolosa….
LO SPAZIO NEGATIVO
Per spazio negativo s’intendono quelle aree del fotogramma che non hanno scopi, possono essere
porzioni di cielo insignificanti, specchi d’acqua banali, terre desolate che non hanno funzione di
soggetto. Questi spazi vanno evitati perché generano la noia a chi li guarda.
Al contrario si può usare lo spazio negativo come soggetto accompagnato da un supporto che lo
rafforzi, per esempio, un rotolo di fieno in un campo appena falciato o un legno che emerge in uno
stagno brumoso; in questo caso una delle regole più importanti è definire il giusto rapporto
dimensionale tra spazio negativo e supporto. Un supporto troppo piccolo non è più tale, se invece è
troppo grande diventa il soggetto principale attorniato da spazio negativo. Sta alla sensibilità e
capacità grafica del fotografo determinare i giusti rapporti dimensionali per sfruttare a proprio
vantaggio ciò che normalmente è un problema.
SOGGETTO E CONTESTO
Alcune volte è importante contestualizzare il soggetto per rafforzare la sua identità, altre volte è
meglio eliminare il contesto per esaltare maggiormente il soggetto.
I SOGGETTI FOTOGRAFICI
IL PAESAGGIO
Le foto di paesaggio sono le più frequenti dopo quelle di famiglia.
Virtualmente potremmo dire che conosciamo tutti i paesaggi del nostro pianeta e persino della luna
e di molti pianeti del nostro sistema solare.
Tra le infinite immagini di paesaggi che abbiamo a disposizione sono poche quelle che attirano la
nostra attenzione e che scatenano in noi emozioni particolari.
Il paesaggio è un soggetto fotografico che bisogna corteggiare, ha bisogno di molta attenzione e
pazienza.
La difficoltà per il fotografo sta nel fatto che il paesaggio non è gestibile, è così in quel momento.
Se pensiamo che la luce di quel momento non è ottimale bisogna spostarsi o aspettare un altro
momento della giornata o altre condizioni meteorologiche. Per esempio, se vogliamo fotografare le
onde bisogna aspettare che il mare sia agitato. Un fotografo professionista può aspettare che le
condizioni meteo siano ottimali, ma chi non ha tempo deve mettere in patica tutte quelle astuzie che
gli permettano di fare comunque una bella foto.
Ogni ambiente ha un potenziale emotivo che il fotografo deve essere in grado di capire prima di
catturare, d’altro canto, non bisogna farsi catturare emotivamente dal paesaggio perché serve
freddezza per applicare tutte le conoscenze tecniche. Il coinvolgimento emotivo è spesso fonte di
delusione perché ciò che la macchina fotografa registra non è quello che il fotografo crede di
fotografare, sta alla capacità del fotografo ottenere un fotogramma che rispecchi lo stato d’animo
che quel paesaggio ha scatenato in lui.
Il fotografo si deve porre la domanda: quale aggettivo mi fa venire in mente questo paesaggio?
Come posso trasmetterlo in una foto? La risposta a questa domanda arriva dalla capacità di
osservare, dalla sensibilità e cultura fotografica del fotografo.
Immaginiamo il fotografo sul bordo di una scogliera battuta da una burrasca, la salsedine è nell’aria
e il fragore dell’infrangersi delle onde lo circondano ed è proprio tutto ciò che la foto, che si accinge
a scattare, deve trasmettere. Ci sono comunque alcuni soggetti fotografici che inducono
immediatamente sensazioni che sono comuni alla maggior parte delle persone, come per esempio:
montagne ! grandezza;
vento e onde ! forza;
alba ! rinascita;
tramonto ! abbandono.
Chi guarda la foto di un paesaggio deve percepire l'emozione che ha indotto il fotografo a
riprenderlo. Prima si faceva cenno alla cultura fotografica; un altro elemento importante è
l'esercizio fotografico, l'esperienza del fotografo; le buone immagini vengono dopo anni di foto
mediocri.
Osservando un paesaggio isoliamo immediatamente gli elementi più importanti, ma se scattiamo
una foto panoramica questa conterrà sia gli elementi peculiari che quelli banali; sta nella capacità
del fotografo isolare ed esaltare gli elementi che caratterizzano il paesaggio stesso.
Se un paesaggio ci ispira dobbiamo domandarci qual è la causa di questa attrazione: la cascata, una
quinta di alberi, il colore delle foglie in autunno, il cielo, una montagna. Una volta individuata la
causa bisogna valorizzarla con l'inquadratura e con la tecnica fotografica adeguata. Ricordo che la
difficoltà nel riprendere un paesaggio sta nel fatto che non possiamo modificare le condizioni
d’illuminazione e la disposizione dei soggetti, quindi, se necessario, bisogna spostarsi nelle quattro
direzioni per avere un'inquadratura o aspettare un altro momento.
Se il soggetto non è l’ambiente, questi deve essere contestualizzato nell’ambiente in cui è inserito.
Se si decide di scattare alle prime e/o ultime luci del giorno conviene munirsi di cavalletto per poter
lavorare con tempi lenti. Un esercizio utile è quello di osservare e studiare il lavoro dei grandi
fotografi, cercando di capire come sono state fatte le riprese. Un altro esercizio è quello di
fotografare lo stesso luogo alle varie ore del giorno, in momenti meteorologici diversi e in stagioni
diverse.
La bussola è uno strumento assai utile per capire il percorso del sole, quindi pianificare l’ora in cui
bisognerà essere sul posto per scattare la foto che riteniamo essere la migliore.
Prima di scattare quindi, bisogna osservare e pensare cosa vogliamo inquadrare poi come comporre
ciò che andiamo ad inquadrare. Quando si guarda nel mirino dobbiamo pensare che ciò che si vede
sarà impresso nell'immagine; la domanda è: “siamo soddisfatti?” Se sì scattiamo.
Consiglio utile: prendiamo un cartoncino, ritagliamo un foro rettangolare e poniamolo di fronte al
paesaggio come se lo vedessimo da una finestra. Allontanando e avvicinando il cartoncino agli
occhi possiamo studiare l’inquadratura come se disponessimo di un potentissimo obiettivo zoom.
Infatti avvicinandolo agli occhi vedremmo un campo ampio come quello di un obiettivo
grandangolare, mentre se lo si allontana dagli occhi otteniamo l’effetto di un teleobiettivo.
Come detto in precedenza per fare una fotografia sono indispensabili tre elementi, soggetto, tecnica
e estetica. Soggetto e tecnica parlano da sole non c'è bisogno di spiegazioni, questi elementi sono
appannaggio di qualsiasi persona che si accinga a fotografare; l'estetica è, invece, una questione
soggettiva, dipende dalla sensibilità e gusti del fotografo.
Come sappiamo esistono delle regole precise per la composizione dell'immagine ma ci sono delle
situazioni per le quali si possono trasgredire per dare maggiore risalto al soggetto e all'ambiente che
lo contestualizza.
Le cose importanti di base nella fotografia di paesaggio
Se disponiamo di cavalletto o non ci sono soggetti in movimento, possiamo lasciare alla macchina
la decisione del tempo di esposizione in modo da chiudere maggiormente il diaframma e/o usare
valori ISO bassi per ottenere una migliore definizione.
Se invece non disponiamo di cavalletto dovremmo stare attenti anche al tempo di esposizione
soprattutto se la luce a disposizione non è molta.
Ma vediamo di mettere ordine alle domande da porsi e alle quali dare una risposta prima di
fotografare un paesaggio.
Perché voglio fare la foto?
Qual è il soggetto?
A che ora conviene fotografare?
Cosa voglio inquadrare?
Come compongo l’immagine?
Che valori di diaframma, tempo di esposizione e ISO devo usare?
Dove metto a fuoco?
Il punto d'interesse
La "lettura" di una fotografia è condizionata dalla nostra abitudine di leggere. Nella lettura
seguiamo le righe in un certo verso per poi andare a capo.
In altre parole seguiamo regole precise. Nel riprendere un paesaggio dobbiamo tener conto di questa
nostra abitudine. Lo sguardo di chi guarda non deve vagare per trovare il soggetto dell'immagine. Il
fotografo lo deve quindi aiutare attraverso linee guida, che conducono lo sguardo sul soggetto che
avrà la giusta dimensione nel fotogramma. Se fotografiamo un leone nella savana bisogna che leone
sia ben leggibile; se fosse troppo piccolo perderebbe il titolo di soggetto, se troppo grande non
sarebbe contestualizzato nell'ambiente.
La posizione del soggetto.
Solitamente chi inizia a fotografare è portato a posizionare il soggetto al centro dell’immagine.
Questo istinto è anche di chi osserverà la stessa immagine; in questo modo però lo sguardo non
percepisce gli elementi secondari come, per esempio, l’ambiente e le condizioni meteorologiche.
Decentrando il soggetto principale imponiamo un vagabondaggio visivo all’osservatore per tutto il
piano dell’immagine alla ricerca del soggetto; in questo modo verrà esplorato completamente il
fotogramma entrando a conoscenza di tutti gli elementi che il fotografo ha voluto inserire.
La luce ideale
La luce è uno degli elementi fondamentali nella foto di paesaggio: può rendere affascinante una
landa insignificante o indebolire un ambiente splendido.
Sono le luci calde del tramonto e dell’alba a rendere spettacolari le foto d’ambiente naturale; ciò è
talmente vero che le riviste specializzate accettano solo foto scattate in questi momenti del giorno.
La luce radente poi genera delle forme d’ombra interessanti che possono essere sfruttate a fini
fotografici.
Al di fuori dell’alba e tramonto si possono creare atmosfere particolari con la nebbia che invade un
bosco, con le luci del sottobosco pervaso dal muschio o dalle foglie autunnali o con le nubi di
tempesta che insistono su di una montagna o sul paesaggio marino.
Angolo di ripresa
Una delle tecniche efficaci quando vogliamo riprendere un paesaggio monotono è quella di trovare
angoli di ripresa inusuali. Per far ciò è possibile sdraiarci a terra, usare scale, sedie o quant’altro per
sollevarci. In questo modo otterremo immagini nuove e intriganti di un soggetto ormai banalizzato.
Primo piano e campo lontano
Se siamo di fronte ad un paesaggio monotono e vasto rischiamo di fare foto composte da spazi
negativi. Una soluzione potrebbe essere quella di mettere in primissimo piano un elemento
distintivo del paesaggio. La situazione si movimenta ulteriormente se oltre al primissimo piano
mettiamo un altro soggetto in un piano lontano cercando di avere una profondità di campo che
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tenga a fuoco entrambi i soggetti. Attenzione alle dimensioni dei due soggetti: queste devono essere
equilibrate e gradevoli.
Il cielo
Il cielo è un elemento con importanza variabile fino a diventare il soggetto primario dell’immagine.
Questo è in grado di trasmettere sensazioni forti: nuvole di tempesta turbano l’osservatore, mentre
piccole nuvole bianche trasmettono serenità.
Per gli amanti dei cieli consiglio l’uso di un filtro polarizzatore che permette di esaltare
ulteriormente la potenza emotiva del cielo.
Le linee guida
Le linee guida sono un elemento frequentissimo ed importante per i paesaggi. Il percorso di un
torrente, i filari di lavanda, un viale alberato, un pontile che si allunga nel mare sono solo pochi
esempi di ciò che si può trovare in natura. Utilizzare bene le linee guida per condurre lo sguardo
verso il soggetto principale è una regola molto importante.
La cornice
In alcuni casi è possibile posizionare il soggetto principale all’interno di una cornice naturale
diversamente illuminata. Una cornice può essere una porta aperta, l’arco di un ponte, il fogliame del
bosco o l’ingresso di una grotta. Questi sono solo pochi esempi di cornici che si possono sfruttare
per comporre immagini particolari.
Il pattern o le ripetizioni di oggetti
I paesaggi sono spesso caratterizzati dalla ripetizione di oggetti simili come ad esempio i ciottoli di
una spiaggia, le spighe di un campo di grano o le sedie di un teatro… Queste ripetizioni possono
diventare esse stesse il soggetto di una immagine se disposte secondo una regola di composizione.
Proporzioni
Molte volte ci si trova nella necessità di dare una dimensione al paesaggio. Possiamo trovare un
aiuto inserendo nell’immagine un soggetto dalle dimensioni conosciute come una casa o una
persona. Una casa in una coltivazione di mais ci da un’idea delle dimensioni del coltivato. Uno
speleologo che osserva un salone ipogeo dà la dimensione di quest’ultimo.
Lo spazio negativo
Come si è detto in precedenza, grandi cieli e grandi praterie sono insignificanti senza soggetti
principali; alcune volte però questi spazi “negativi” possono caratterizzare un’immagine rendendola
interessante. Bisogna avere molta sensibilità per fare una cosa bella con oggetti di scarso valore.
Pulire la scena
Non sempre i paesaggi che fotografiamo sono “selvaggi”, il più delle volte ci troviamo a fotografare
fuori porta dove è possibile trovare spazzatura che è compresa nell’immagine che stiamo per
registrare. Abbiamo due possibilità: levare la spazzatura dalla scena o cambiare angolo di ripresa.
Quest’ultima opzione è utile quando vogliamo eliminare auto, spigoli di edifici, rami sporgenti,
linee elettriche e così via.
Il senso del movimento.
Usando tempi di esposizione lunghi possiamo rendere visibile il movimento delle acque di un fiume
o di una cascata o ai rami degli alberi spazzati dal vento.
La fotografia naturalistica
La fotografia naturalistica nasce per rappresentare le bellezze naturali come ambienti, flora, fauna.
Se per i paesaggi l’attrezzatura fotografica è abbastanza semplice, le cose si complicano quando si
vogliono fotografare animali selvatici di grandi dimensioni o documentare il mondo microscopico
di fiori e insetti.
Ad ogni modo per tutte le tipologie di fotografia naturalistica c’è bisogno di pazienza, tempo e per
ognuna di attrezzatura adatta.
Per riprendere animali selvatici nel loro ambiente abbiamo bisogno di teleobiettivi spinti e cavalletti
robusti. In alcuni casi, quando i selvatici sono molto diffidenti, si ha bisogno di un capanno
camuffato dove appostarsi ed aspettare anche giorni.
Per chi non possiede l’attrezzattura adatta o chi non vuole appostarsi per giorni interi entro un
capanno, c’è la possibilità di fotografare quei selvatici che ormai albergano nei fiumi e nei parchi
delle nostre città. E’ così che possiamo fotografare scoiattoli, aironi, garzette e germani, mentre al
limitare delle periferie, nelle ore che seguono il tramonto, è possibile incontrare cinghiali, volpi,
faine e gufi. In questi casi è facile fare delle foto naturalistiche discrete, anche con un’attrezzatura
fotografica di base: basta solo appostarsi sulla sponda di fiumi e rii cittadini o in un parco dove
vivono gli scoiattoli.
Se non si possiede un’attrezzatura dedicata ma comunque si vogliono fotografare i selvatici,
possiamo fare foto che contestualizzano il soggetto nel suo ambiente, sia esso naturale o cittadino.
La fotografia macro è sicuramente meno dinamica ma la più fattibile. Ormai tutte le macchine
fotografiche in commercio sono predisposte per la fotografia macro, basta selezionare il comando
contraddistinto da un fiorellino stilizzato. In caso si possieda una macchina reflex si può acquistare
un obiettivo specifico per questo tipo di fotografia. Attrezzati con questa attrezzatura minima è
possibile scattare ottime immagini.
Ma vediamo quali accorgimenti si possono adoperare per fare delle buone foto macro a prescindere
dalle regole compositive che già conosciamo.
Lo sfondo va sfocato o no se si vuole, rispettivamente, isolare o contestualizzare il soggetto.
Un altro modo per isolare è quello di scegliere un soggetto molto illuminato rispetto al contesto, per
poi sottoesporre il fotogramma di 1, 2, 3 diaframmi. Con questa modalità il soggetto rimarrà
esposto correttamente mentre lo sfondo diventerà molto scuro. Di converso, se si desiderano
immagini acquarello, si può sovraesporre il soggetto ed il suo contesto di alcuni diaframmi per
avere delle immagini dai colori slavati, tenui. La scelta va fatta in funzione della propria sensibilità.
Se si ha la possibilità di scegliere lo sfondo cerchiamolo di un colore che sia complementare o
adiacente a quello del soggetto.
Il flash va adoperato quando siamo controluce o per ottenere effetti speciali, ma dobbiamo tener
presente che con la macro fotografiamo a distanze ravvicinate, per cui c’è la possibilità che la luce
del flash illumini troppo il fotogramma. In questo caso bisogna ridurre la potenza del flash della
quantità che serve. Solitamente, nelle macchine digitali c’è la possibilità di gestire la potenza del
flash.
Per l’ambiente subacqueo valgono le stesse regole di quello sub-aereo, ma qui insorgono difficoltà
legate ai tempi ristretti dell’immersione, all’attrezzatura meno versatile, alla sospensione che il più
delle volte offusca l’acqua marina e, per ultimo, all’assorbimento cromatico differenziale della luce
solare. Il primo colore a sparire è il rosso, poi il giallo e alla fine rimane solo il blu. Per recuperare i
colori si deve usare il flash. L’uso del flash è molto utile, ma lo si deve adoperare quando l’acqua è
libera dalla sospensione di particelle solide che, se presenti, sarebbero illuminate andando a
sovrapporsi al soggetto e al suo ambiente.
Sott’acqua l’inquadratura può essere difficile, ma quando si può non ci sono limiti negli angoli di
ripresa: alto, basso, lati, fronte e retro, basta solo stare attenti alla provenienza della luce.
Il ritratto
Il ritratto è un tipo di fotografia molto frequente; i motivi sono molteplici, le necessità dei mass
media, i ricordi famigliari e i selfie. Conosciamo tutti i grandi della Terra anche se non li abbiamo
mai visti di persona grazie ai ritratti che i fotografi professionisti producono per i mass media.
Anche nell’ambito famigliare tutti noi abbiamo scatole, o cassetti, o hard disc dove accumuliamo
centinaia di foto di famiglia cioè di ritratti.
Il ritratto ha due scopi principali, descrivere la persona nella sua parte esteriore, (le foto di famiglia,
selfie) o nei suoi aspetti più intimi. A questo binomio aggiungo sempre un terzo tipo di ritratto,
quello che raffigura l’uomo nel suo ambiente e nello svolgimento delle sue attività. Con questa
ultima tipologia di ritratto possiamo descrivere mondo, lavoro e i luoghi dove vive il soggetto in
uno stato naturale.
Con l’avvento della fotografia digitale le quantità di ritratti che scattiamo sono aumentate in modo
esponenziale. I selfie sono la nuova espressione del ritratto; le nuove generazioni producono
quotidianamente quantità spaventose di autoritratti di questo genere.
Nel passato il pittore Antonello da Messina è stato un esecutore incredibile di ritratti introspettivi. A
guardare le sue opere si entra in contatto intimo con i soggetti, dai loro occhi traspare tutta la loro
caratterialità. Il ritratto intimo di una persona è proprio questo, la rappresentazione grafica della sua
parte più intima. Questo è il compito più difficile che si trova ad affrontare chi si appresta a
fotografare una persona.
Meno difficile è riprendere uomini e donne immersi nel loro ambiente, mentre svolgono un’attività
ludica o di lavoro. In questo caso è importante raffigurare la persona così com’è nel contesto in cui
è inserita e che la rappresenta.
La domanda da porsi è sempre la stessa, “che cosa voglio trasmettere con la mia foto?”
E’ utile guardare le opere dei grandi fotografi, per poi analizzare quelle che ci colpiscono di più.
Non è detto che un ritratto deve essere il classico ó busto, può anche essere espresso con una
persona irriconoscibile all’interno di una scena. Ugualmente, un ritratto può essere anche un
particolare anatomico di una persona, ma questo deve raccontare la storia che vi siete incaricati di
documentare.
Una volta capito che cosa si vuole fare bisogna metterlo in pratica sempre tenendo conto delle
regole sulla composizione. E’ comune che un ó busto centrato risulti un buon scatto, ma nel caso
del ritratto nel suo contesto, conviene utilizzare la regola dei terzi o la spirale di Fibonacci per la
composizione finale. Quindi non bisogna esitare se per avere una migliore inquadratura bisogna
spostarsi o usare un’altra focale.
Nel momento in cui si decide di fare un ritratto ó busto bisogna essere sicuri che l’occhio più
vicino al fotografo sia perfettamente a fuoco. L’occhio sfuocato rende il ritratto molto brutto.
Nel fare un ritratto si possono sfruttare anche elementi secondari, ma attenzione che questi non
superino in importanza il soggetto principale.
La profondità di campo è un elemento che può isolare il soggetto o fonderlo con il resto della scena,
sta a noi decidere cosa è meglio fare in ogni singola situazione. Se lo sfondo aiuta il soggetto
bisogna tenerlo a fuoco, se disturba è necessario eliminarlo usando magari una focale lunga.
Come in tutti i soggetti fotografici la luce è tra gli elementi più importanti, ricordo che le sue
caratteristiche sono: qualità (intesa come temperatura di colore e diffusione) e direzione.
Anche per i ritratti la luce calda dell’alba e del tramonto è da preferire a quella cruda delle ore
centrali della giornata. La luce diffusa è ottima in quanto riduce la durezza delle ombre.
La luce proveniente dalle spalle con un angolo di 45° è ideale per i ritratti, in quanto determina le
ombre giuste per dare tridimensionalità al volto.
Negli interni si può sfruttare la luce proveniente dall’esterno che filtra da finestre o spiragli del tetto
o delle porte. In questi casi bisogna studiare bene l’inquadratura per sfruttare tutto il pathos che
sono in grado di fornire queste luci.
Se si vuole ritrarre il soggetto mentre svolge la sua attività bisogna usare tempi lunghi di modo che
le parti del corpo che si muovono risultino mosse. Questa tecnica rende dinamica l’immagine e
parla dell’attività del soggetto.
L’ombra del soggetto potrebbe essere un altro elemento importante nella composizione
dell’immagine: bisogna studiarla bene perché possa diventare un elemento importante e non un
intoppo.
Grande efficacia hanno gli scatti in controluce: viene obnubilata l’immagine del soggetto, ma la sua
silhouette nera che si staglia contro il fondo può emozionare ancora di più chi guarda.
Il reportage e la fotografia di viaggio.
Il reportage è un resoconto oggettivo e necessita di conoscenza, passione e capacità di
immedesimarsi in culture diverse dalle nostre. Si parla certo di viaggi in paesi lontani, ma anche di
regioni italiane limitrofe a quella in cui viviamo. Con il reportage si documentano anche mestieri o
altre attività dell’uomo. Fotografare il rito del te in Giappone ha la stessa valenza del registrare la
vita di un contadino del Piemonte mentre lavora la sua vigna, da quando cura la terra a quando
raccoglie le uve fino alla vinificazione.
Quando si progetta un viaggio fotografico non bisogna dimenticare di documentarsi su tutti gli
aspetti che possono interessarci, siano essi il clima o la storia e la cultura di quel posto, poi bisogna
consultare ciò che altri fotografi hanno fatto prima di noi.
Può essere utile prefiggersi un tema per esempio, la natura, il lavoro, la religione, i costumi e le
tradizioni locali… Questo metodo ci permette di concentrarci su di un tema e non disperderci in
mille rivoli che possono portare a risultati mediocri. Per questi motivi servono la passione e la
capacità d’immedesimarsi, la pazienza serve invece per aspettare che la situazione ambientale e
psicologica sia quella ideale per entrare in contatto con le persone senza inquinare la loro attentività
per poi riprenderle.
Come sempre è importante riprendere con le regole canoniche della fotografia, ma spesso questo
non è possibile quindi bisogna avere la capacità d’adattarsi alla situazione fotografica del momento.
La tecnica fotografica è come il sale per la pastasciutta, serve a esaltare le immagini del racconto.
E’ fondamentale produrre fotografie delle cose o situazioni risapute, ma è altrettanto importante
registrare cose e situazioni uniche, che caratterizzano ciò che si va a raccontare.
Ci dobbiamo porre le cinque domande che sono il vademecum dei fotogiornalisti e cioè chi, che
cosa fotografare e dove, quando e come fotografarlo. Un’attenzione particolare va riposta nel
fotografare le persone. Quando è evidente che stiamo fotografando una persona è sempre meglio
chiedere il suo consenso, soprattutto in quei paesi dove l’essere ritratti è ritenuto un oltraggio e/o
dove non dominiamo bene la lingua; per questo motivo è meglio informarsi prima di partire.
L’attrezzatura fotografica deve essere leggera e versatile, una buona compatta con uno zoom con
una escursione 28-120 è ottima per i nostri scopi, ma se non vogliamo rinunciare alla reflex, a
questa possiamo aggiungere due zoom come 18-50 e 50-250. Sono invece da non dimenticare le
schede di memoria di riserva e una batteria di riserva; le foto più belle capitano sempre quando la
batteria è scarica. Se il reportage implica la ripresa in ambienti difficili come la foresta pluviale, la
barriera corallina, la grotta o l’alta montagna allora bisogna dotarsi di tutti i sistemi di protezione
dell’attrezzatura.
Il grandangolare è indispensabile per riprendere strade, luoghi sacri, mercati e paesaggi, mentre il
medio tele ci permette di rubare immagini di persone che potrebbero essere poco socievoli. Il super
teleobiettivo è fondamentale nel caso dovessimo fare un reportage sulla vita di animali piccoli e
schivi.
Si deve intendere che anche per le foto di viaggio valgono le regole date in precedenza riguardo
l’inquadratura e le condizioni di ripresa. Come si evince da quanto detto in precedenza la fotografia
di viaggio implica padronanza nella fotografia di paesaggi, ritratti e urbana.
Se tornati a casa avete voglia di comporre un foto-racconto, fatelo con poche immagini
significative, anche se non sono perfette tecnicamente, in modo che le persone a cui lo sottoporrete
non si addormentino a metà.
Foto-racconto.
Il foto-racconto è analogo al reportage, ma è più personale, soggettivo. Deve avere un ordine di
dettaglio migliore e nella composizione di uno slide-show devono essere presenti più didascalie.
Deve essere una via di mezzo tra il racconto orale e quello fotografico.

Per quanto riguarda la tecnica, le regole e l’attrezzatura vale quanto detto per il reportage.









MANIFESTAZIONI SACRE E PAGANE NELLA SARDEGNA ODIERNA
Sono stato invitato a tenere una conferenza sulle manifestazioni sacre e pagane in Sardegna.
A tal proposito ho preparato quattro slide show da proiettare e un po’ di informazioni propedeutiche alla loro visione, quelle che riporto qui di seguito.

L’essere un’isola al centro del Mediterraneo ha fatto si che la Sardegna è sempre stata terra di transito e dominio di diverse etnie. Il mare è stato quindi un elemento di apertura culturale, ma anche di sofferenza per i sardi. I contatti con le altre culture hanno creato una sovrapposizione, a strati permeabili, dei riti e delle loro manifestazioni che si sono alternati nei secoli.
Ad oggi, il numero delle manifestazioni è molto grande, ma in passato erano ancora più numerose, basti pensare che nel XVII secolo, a Cagliari, si svolgevano 74 eventi infrasettimanali ogni anno, ai quali bisogna aggiungere le feste pasquali e natalizie.
Perché tutto questo fiorire e mantenersi nel tempo di questi incontri comunitari?
Le ragioni hanno in parte radici profonde che arrivano al periodo nuragico e in parte dipendono dalla necessità dei sardi d’avere un conforto mistico alle numerose problematiche derivanti da natura e invasioni che arrivavano dal mare e in parte dal fatto che nel periodo nuragico non esisteva la scrittura per cui il sapere veniva tramandato oralmente o attraverso i riti.
Non si sa quando i sardi hanno iniziato a praticare i riti in onore delle loro divinità, ma conosciamo i monumenti che hanno lasciato e in base a questi possiamo fare delle considerazioni.
Intorno al 3500 a.C. Fu edificato lo ziqqurat di Monte D’Accodi, una piramide tronco piramidale alta quaranta metri sulla quale i sacerdoti officiavano i loro riti e osservavano il cielo stellato. Ai suoi piedi un menhir, un dolmen sacrificale e una roccia sferoidale ove sono state scolpite numerose coppelle, quasi a raffigurare un firmamento. Coeve al Monte D’Accodi sono le Domus de Jana, groticelle scavare nella roccia dove venivano inumati i morti. Anche queste costruzioni ci parlano dei riti e dei pensieri che tormentavano i sardi a proposito dell’aldilà.
Successivamente iniziarono le costruzioni delle tombe dei giganti attorniate da betili aniconici disposti in triadi maschili e femminili; siamo all’inizio della civiltà nuragica, tra il 2000 e il 1500 a.C.. Intorno a questi monumenti si svolgevano riti di incubamento durante i quali si entrava in comunicazione con i morti. Successivamente sono stati costruiti i pozzi sacri in onore della dea delle acque. A questo punto il Pantheon sardo era costituito da eroi quali, Sardo, Aristeo, Iolao, Dedalo e dalle divinita maschile rappresentata dai menhir, dal fuoco e dal sole e da quella femminile rappresentata dall’acqua, dalla luna e dalla terra.
Quando nell’88°a.C. arrivano i mercanti greci i sardi entrano in contatto con le loro divinità. Una in particolare attira la loro attenzione, quella di Dioniso. Un Dio figlio della principessa Semele e dal Dio Zeus; Semele prima di partorirlo muore così Zeus prende il feto di Dioniso e inserisce nella sua coscia fino alla nascita definitiva. Dioniso diventa così il Dio della rinascita, inizialmente legato al mondo dei vegetali. Questi infatti muoiono ogni anno durante l’inverno per poi risorgere in primavera. Nel tempo Dioniso diventa in dio del dualismo fino a rappresentare l’essenza stessa dell’uomo il quale sotto una scorza razionale e civile nasconde il mondo istintuale caratterizzato da irrazionalità e sensualità. Dioniso morirà dilaniato dai titani.
I riti dionisiaci erano praticati da donne seminude e uomini travestiti da satrapi, satiri e fauni, i quali assumevano droghe e bevevano vino al fine di eliminare la parte razionale e arrivare all’estasi e alla trance. Ballavano creavano un corteo si svolgeva in foreste durante la notte. Alla fine veniva praticato lo sparagmos, un rito che consisteva nello sbranamento di un animale vivo per ricordare la morte di Dioniso. La sua morte era propedeutica alla vita successiva, infatti questi riti si svolgevano alla fine dell’inverno per propiziarsi una nuova stagione di raccolti abbondanti.
Tutti o parte di questi elementi li ritroviamo nelle manifestazioni pagane come i carnevali, la maschera, il sacrificio la sensualità, la follia e il dualismo come le maschere androgine della Sartiglia.
La Sardegna conosce poi la dominazione cartaginese, quella romana e ancora quella dei vandali che al fine sono scacciati dai bizantini nel 534 d.C.
Da questa data inizia l’evangelizzazione della Sardegna secondo un cristianesimo di rito greco.
Da subito i missionari rinominarono i monumenti nuragici con nomi di santi, così i nuraghi, le tombe dei giganti e i pozzi sacri hanno preso nomi tipo Santu Antine, Santa Cristina. L’azione evangelica ha cercato poi di eliminare i riti che a questo punto sono stati bollati come pagani. La resistenza dei sardi è stata così forte che anche se è vero che per alcuni riti si sono perdute le tracce, per altri le testimonianze nuragiche sono ancora leggibili.
Di converso nelle manifestazioni cristiane si possono scorgere sincretismi che portano fino a elementi nuragico-greci.
I carnevali
La parola carnevale deriva dal latino carnem levare, togliere la carne perché dalla fine del carnevale inizia il periodo di digiuno della Quaresima. In sardo la parola carnevale è tradotta con carrasegare o harrasehare cioè carne viva da sbranare, dilaniare. Questa definizione ricorda, in modo inconfutabile, al sacrificio di Dioniso dilaniato, da vivo, dai titani.
Il carnevale sardo è un rito e non una manifestazione come nel resto dell’Italia. L’inizio coincide con il 17 gennaio S. Abate e si protrae fino a febbraio, è caratterizzato da maschere o visi dipinti di nero, pastrani neri di orbace o pellicce di pecora o capra vestite rivoltate per rappresentare il mondo dei morti. I campanacci, se ci sono, suonano all’unisono per creare un ritmo ipnotico o in modo casuale per creare un’azione apotropaica contro il male. Il tema può essere agropastorale o sacrificale, spesso i figuranti mostrano elementi androgini tipici dei riti e della figura di Dioniso, Dio del dualismo, ne sono esempio le maschere della Sartiglia o il berretto maschile e fazzoletto femminile indossati contemporaneamente dai Mamuthones e Issohadores.
Tutti questi riti sono accompagnati, in qualche modo, dal vino e dal mangiare.
In quest’incontro ho presentato un sunto fotografico dei carnevali di, Oristano, Mamoiada, Orotelli, Ovodda, Samugheo, Bosa, Santulussurgiu e Ottana.
Ho inoltre portato elementi di altre manifestazioni, quelle equestri delle pariglie e religiose, patronali e “coia maureddina”.





Viaggio fotografico in Sardegna dal 13 al 18 febbraio 2015

Alla fine del corso di fotografia quindici alievi hanno partecipato ad un viaggio in Sardegna mirato alla documentazione fotografica di alcune manifestazioni carnevalesche. Si è così partecipato ai carnevali di Oristano (Sa Sartiglia), Orotelli (Is Turpos), Samugheo (Mamutzones e Urtzu) e Bosa.
Una giornata è stata dedicata alla visita degli stagni di Cabras per osservare i fenicotteri rosa e alla visita della via dell’ossidiana sul Monte Arci. Nella mattina del giorno di partenza è stato visitato il museo di Cabras dove sono esposte le statue nuragiche ritrovate negli scavi archeologici di Monte Prama.

Oristano, la Sartiglia: le pariglie dopo la corsa della stella
Orotelli: la preparazione dei Turpos
Samugheo: S'Urtzu
Samugheo: Mamutzones
Bosa: Attittadoras

Bosa: alla ricerca di Joltzi

CORSO DI FOTOGRAFIA

A.A. 2014-2015 UNI3 BOGLIASCO            

Docente: S. SARIGU 

DISPENSE

Vedi dispense anno 2015-2016






 

Anno Accademico 2013-2014; 


Alcuni auditori del corso

Titolo corso: " I colori e la geologia".

Argomenti: 
La chimica del colore
La fisica dei colori
La fisiologia e la psicologia dei colori
I colori
Evoluzione dei colori nella storia dell'arte


DISPENSE

LA CHIMICA DEL COLORE

Introduzione
Dal punto di vista filosofico arte e scienza sono argomenti scollati, ma in realtà vi è una relazione strettissima se si pensa alla scienza come proposizione di materiali atti all’arte e/o come risolutore di problematiche sorte in campo artistico.
I colori traggono origine e si evolvono con la chimica inorganica ed organica.

Colori dei minerali
Tutta la materia organica e inorganica che costituisce l’universo è data dalla combinazione di pochi elementi chimici chiamati atomi; questi sono presenti e costituiscono la tabella di Mendeleev. Il chimico russo Dmitrij Ivanovič Mendeleev nel 1869 conosceva l’esistenza di soli 63 elementi, ma tenendo conto delle loro caratteristiche intuì l’esistenza di altretanti elementi mancanti; a questo punto progettò una tabella sulla quale dispose gli atomi conosciuti e quelli mancanti. Scoperte successive confermarono le intuizioni di Mendeleev e tutti gli elementi andarono a riempire i vuoti della sua tabella.
Gli atomi, o elementi chimici, sono ordinati secondo il numero dei loro elettroni (neutroni e protoni). Aggiungendo al primo elemento, cioè l’idrogeno, un elettrone nell’orbita esterna ed un protone nel nucleo e si ottiene l’elemento successivo, l’elio. Con questo meccanismo si ottengono tutti gli elementi chimici.  Gli elettroni ruotano intorno al nucleo (che contiene protoni e neutroni) in modo ordinato, secondo gusci concentrici (in effetti gli elettroni si muovono secondo orbitali aventi geometrie diverse, ma specificare ciò esula dallo scopo di questo corso, comprometterebbe il profilo di semplicità e compensibilità  che voglio mantenere). Il primo guscio, quello prossimo al nucleo, contiene 2 elettroni, il secondo 8 elettroni; si possono avere fino a sette gusci concentrici, ma dal secondo in poi quelli più esterni contengono sempre 8 elettroni. I gas rari (ultima colonna a dx della tabella di Mendeleev) sono gli unici atomi ad avere il guscio esterno completo di otto elettroni, negli altri elementi rimane incompleto.
I composti inorganici come i cristalli e i sali sono costituiti da atomi di metallo (Zn, Mn, Fe…) e da elementi non metallici (ossigeno, cloro, zolfo…); in entrambi il guscio esterno è mancante di elettroni. La loro unione è possibile attraverso la messa in comune di elettroni. Gli elementi metallo acquistano elettroni e saturano il loro ultimo guscio, mentre i non metalli cedono gli elettroni più esterni eliminando il guscio più esterno. I metalli, avendo acquisito elettroni diventano ioni negativi o cationi, mentre i non metalli, avendo perso gli elettroni diventano ioni positivi o anioni.Questa messa in comune di elettroni crea un legame elettrico molto forte, il legame ionico, che è caratteristico dei materiali minerali. L’unione ionica crea le molecole che sono i mattoncini della materia; queste poi si dispongono secondo una struttura ordinata per costituire la materia cristallinaLa trasparenza e/o il colore di un cristallo, dipendono dal tipo di atomi che lo costituiscono, da come si dispongono nella molecola e come queste si ordinano per formare la struttura intima dello stesso cristallo. Quando parliamo dei colori dei cristalli dobbiamo anche definire il tipo di luce che li attraversa. Tutti sanno che il colore delle stoffe va scelto alla luce solare, proprio perché le luci interne di un negozio falsano i colori in quanto sono luci generate da sorgenti diverse dal sole.Quando un raggio di luce interagisce con un minerale, o un oggetto in generale, si hanno quattro possibilità:
·               il raggio è completamente assorbito è l’oggetto ci appare nero
·               il raggio è completamente riflesso è l’oggetto ci appare bianco
·               il raggio è parzialmente assorbito e/o riflesso è l’oggetto ci appare diversamente colorato
·               il raggio attraversa l’oggetto o il cristallo è l’oggetto o il cristallo ci appariranno trasparenti

Queste differenze si devono alle dimensioni degli atomi che compongono le molecole di un minerale e dalla loro disposizione spaziale.
Nel primo caso gli atomi hanno dimensioni tali da assorbire tutte le componenti elettromagnetiche della luce, nel secondo caso queste sono completamente riflesse verso l’esterno. Nel terzo caso alcuni atomi assorbiranno, altri rifletteranno diverse componenti del raggio luminoso. Nell’ultimo caso nessun atomo ha dimensione tale da reagire con la luce rendendo così trasparente l’oggetto o il minerale.
Gli atomi che, per dimensione, reagiscono al passaggio della luce si chiamano cromofori.
Dal punto di vista cromatico i minerali si dividono in:
idiocromatici, che presentano sempre il medesimo colore (come la pirite e l'azzurrite)
allocromatici, che possono presentare colori differenti (come il quarzo).
Minerali idiocromatici
La costanza del colore nei minerali idiocromatici è dovuta alla presenza o meno di elementi cromofori come Sc (Scandio), Ti (Titanio), V (Vanadio), Cr (Cromo), Mn (Manganese), Fe (Ferro), Co (Cobalto), Ni (Nichel), Cu (Rame), Zn (Zinco), che entrano costantemente nella loro composizione atomica. E’ interessante notare che tutti gli elementi cromofori appartengono ai metalli di transizione della tabella di Mendeleev.
Minerali allocromatici
In questi minerali, la colorazione può essere determinata da più fattori fra i quali:
a) presenza di uno o più elementi cromofori come ioni ospiti nella struttura del minerali,
b) deformazione del reticolo cristallino.
c) presenza di inclusioni di altri minerali colorati

a) Elementi cromofori
In questo caso il colore è determinato dalla possibilità di sostituzione di ioni all’interno della struttura cristallina del minerale con elementi cromofori. I metalli di transizione sono alla base dei colori in quanto le transizioni elettroniche che implicano questi ioni hanno frequenze risonanti paragonabili a quelle della luce. Queste interazioni dipendono anche dalla disposizione geometrica complessiva di tutti questi. Lo ione cromo può colorare di verde il berillo e diventare uno smeraldo e di rosso il corindone per generare il rubino perché si imposta in strutture cristalline differenti. 
b) Deformazione del reticolo cristallino
In un cristallo perfetto (o ideale) tutti gli atomi occuperebbero le corrette posizioni reticolari nella struttura cristallina. Un tale cristallo perfetto non esiste, tutti i cristalli hanno difetti più o meno importanti. L'importanza dei difetti risiede nell'influenza che essi esercitano sulle proprietà fisiche e chimiche dei solidi, quali la resistenza meccanica, la plasticità, la conduttività elettrica, la reattività chimica e il colore. I colori di molte pietre preziose sono dovuti alla presenza di impurezze atomiche nelle strutture cristalline.
c) Inclusioni
La terza possibile causa di colorazione dei cristalli è l'inclusione di particelle più o meno fini di un secondo minerale. È questo il caso del quarzo con aghi di tormalina o rutilo.
Attraverso il colore possiamo avere un’idea degli ioni che sono contenuti nei minerali, ad esempio i minerali contenenti rame sono solitamente verdi o azzurri, quelli contenenti cobalto sono rosati, quelli di uranio gialli o arancione.
Il colore di un cristallo può variare se sottoposto ad un aumento della temperatura, cosa che può avvenire  in natura (Vulcano) e in modo artificiale. Il calore può modificare la composizione chimica o la struttura di un cristallo. Scaldando il solfato di rame che è blu, si eliminano le molecole d’acqua lasciando i cristalli quasi bianchi. Scaldando la biacca, che è un pigmento bianco il suo colore varia da giallo poi rosso con l’aumento della temperatura.

Il quarzo

Il quarzo è trasparente alla luce solare quando la struttura atomica è perfetta, cioè composta da soli atomi di silicio ed ossigeno (formula quarzo = SiO2).
I suoi atomi sono inerti alla luce bianca del sole, ma riflettono i raggi ultravioletti che comunque non sono visibili all’occhio umano.
Quando però, all'interno struttura del quarzo sono presenti elementi cromofori, centri di colore o inclusioni, il cristallo si colora.  
Il quarzo rosa deve il suo colore dagli atomi di manganese [SiO2+ Na, Al, Fe, Ti + (Ca, Mg, Mn)].
Il quarzo fumé deve il suo colore alla presenza di atomi alluminio, [SiO2 + (Al, Li, Na)].
Il quarzo ametista è viola per gli atomi di ferro [SiO2 + (Al, Fe, Ca, Mg, Li, Na)].
C’è un altro modo per far assumere un colore ad un minerale, ed è attraverso il riscaldamento. Quando si riscalda una gemma i vuoti contenuti nella sua struttura si riducono e ciò induce una variazione cromatica della stessa.
Il bel colore viola dell’ametista può diventare giallo se si porta il cristallo a 500°C, in questo caso si parla di quarzo citrino. Questa trasformazione può avvenire naturalmente o artificialmente, comunque anche una prolungata esposizione al sole può ridurre la vivacità del viola dell’ametista. Queste mutazioni cromatiche avvengono senza che cambi la chimica del cristallo.

Topazio

Analogamente al quarzo, anche il Topazio [Al2F2SiO4] è un minerale allocromatico, ossia se chimicamente puro è incolore, ma elementi in traccia quali cromo, manganese, ferro e/o centri di colore nella struttura reticolare gli conferiscono le molteplici colorazioni. Si presenta di solito in prismi tozzi, aventi talora dimensioni anche notevoli e viva lucentezza vitrea. Perfettamente puro è limpido e incolore, molto più spesso però è colorato in diverse tonalità di:
giallo per inclusioni di ossido di cromo
azzurro per inclusioni di ossido ferroso
il colore rosso è molto raro.
Le varietà giallo-marsala, riscaldate fra 300 e 450 °C diventano rosee (t. bruciati ), ma riacquistano il colore naturale sotto l’azione delle radiazioni ultraviolette.
Corindone
Le varietà pregiate di questo minerale sono relativamente comuni tra i cristalli delle aureole di contatto fra rocce intrusive acide e rocce calcareo-argillose. Come minerale magmatico, si trova in rocce ignee ricche di alluminio generatesi usualmente per fusione in ambito crostale. In rocce metamorfiche si può trovare entro meta-peliti di alto grado metamorfico.
A causa della sua durezza e della sua elevata resistenza alle alterazioni, a cui sono sottoposti tutti i minerali presenti in rocce affioranti sulla superficie terrestre, il corindone può concentrarsi, come minerale residuale, entro depositi sedimentari alluvionali, derivanti dall'accumulo di detriti provenienti dalla disgregazione di rocce magmatiche o metamorfiche. I suoi giacimenti sono in India e Birmania, piccole quantità si trovano in Italia sul monte Terminillo (Lazio) e in Val Sessera (Piemonte).
Si tratta di un minerale allocromatico, cioè si presenta in tutti i colori. La colorazione dipende da elementi chimici cromofori, che tuttavia non alterano la sua composizione chimica.
Le principali varietà gemmologiche sono:
           Smeriglio: varietà opaca di colore da bianco a grigio-bruno, spesso impura (per ematite,        magnetite, ilmenite, ecc.). È usato industrialmente per la preparazione di abrasivi.
           Rubino: : varietà di corindone di colore rosso per la presenza di cromo
           Zaffiro: varietà di corindone di colore blu per la presenza di ferro e titanio
           Padparadscha (trad. fiore di loto): varietà di corindone di colore aranciato

Si hanno più colori dello zaffiro:
Zaffiro giallo varietà di corindone di colore giallo
Zaffiro verde varietà di corindone di colore verde
Zaffiro viola varietà di corindone di colore viola
Zaffiro rosa varietà di corindone di colore rosa carico
Leucozaffiro: varietà di corindone trasparente ed incolore

Le corrispondenti gemme artificiali sono prodotte mediante apporto di allumina e altri minerali inquinanti (opportunamente dosate).

Berillo

Anche il berillo allo stato puro è trasparente (Be3Al2[Si6O18]), ma se al suo interno si trovano degli atomi ospiti si colora.
La presenza di atomi di Cromo lo colorano di verde e prende il nome di Smeraldo,
con atomi di Ferro si colora di azzurro e prende il nome di Acquamarina,
con atomi di Manganese diventa rosa assumendo il nome di Morganite,
con l’ossido di manganese diventa rossa con il nome di Berillo rosso
mentre con il Ossido di Uranio diventa giallo con il nome di Eliodoro.

varietà
colore
agente colorante
da azzurro acqua a blu
ferro
giallo
ossido di uranio o, forse, ferro
rosa
manganese
verde
cromo o vanadio
rosso
ossido di manganese

Come si vede il cromo fa diventare rosso il corindone e verde il berillo, ma ciò dipende da dalla diversa struttura atomica dei due minerali. L'acquamarina è ancora un berillo che contiene degli atomi di ferro. Alcune strutture cristalline non pure, possono comportarsi differentemente a seconda della sorgente luminosa, così le gemme che rappresentano possono assumere colorazioni differenti se esposte alla luce solare o a incandescenza.

Smithsonite

La smithsonite è un carbonato di zinco (ZnCO3); quando è pura è incolore o bianca, se invece contiene tracce di altri metalli può assumere varie colorazioni:
verde o azzurra per il rame 
gialla per il cadmio
rosa per il cobalto

Tormalina

La Tormalina è una vasta famiglia di borosilicati complessi che, grazie alla presenza di numerosi
elementi in tracce può esibire il più ampio spettro di colorazioni disponibili in ambito
gemmologico. La tormalina è un minerale accessorio comune nelle rocce eruttive e metamorfiche ed è abbondante nelle pegmatiti; per via della loro durezza e inalterabilità si possono reperire anche nelle rocce sedimentarie alluvionali.Le varietà limpide più belle provengono dall'isola d'Elba, dal Minas Gerais (Brasile), dagli Urali, dal Madagascar, da Sri Lanka, Namibia, Mozambico, Maine e California in USA. La tormalina infatti può presentarsi in natura in una moltitudine di colori e tinte diverse. Per questo motivo, nella storia molte tormaline sono state scambiate per altre gemme come ad esempio avvenne, fino al diciassettesimo secolo, per i cosiddetti “rubini” della corona Russa.

A seconda del colore si identificano varie specie di Tormalina, il cui pregio varia a seconda qualità della gemma e della sua rarità, qui di seguito alcuni esempi:


Indicolite: deve la sua colorazione dall’azzurro al blu a ioni di ferro oppure a ioni di rame, in entrambi i casi si possono avere tonalità tendenti al verde per effetto del manganese. I campioni più pregiati sono di colore azzurro brillante.


Rubellite: insieme all’indicolite, è la varietà più pregiata il colore varia dal rosso al rosa, seppur meno pregiata molte volte viene paragonata al molto più costoso rubino ed è una valida alternativa allo spinello rosso.


Verdelite:  come suggerisce il nome viene detta verdelite  la tormalina verde con tonalità che variano dal giallo-verde
al blu-verde.


Dravite: sono le tormaline dal colore bruno. Raramente si trovano in qualità da gemma ma i rari esemplari brown puri sono considerati di particolare pregio per la loro colorazione unica.
Cromo-Tormalina: è una tormalina verde la cui tinta però è molto intensa e dovuta a ioni cromo e vanadio nel suo reticolo cristallino. Per questo motivo è considerata diversa dalla verdelite  ed è molto più rara e costosa proprio per le sue qualità e bellezza.

Paraiba: questa varietà molto rara, associabile genericamente all’Indicolite assume un colore molto particolare, un azzurro-verde brillante dovuto alla presenza nel suo reticolo cristallino di rame. I primi e più pregiati esemplari sono stati rinvenuti recentemente nel giacimento brasiliano di Paraiba da cui è derivato il nome. Il nome è rimasto tale nonostante tormaline con le stesse caratteristiche, di recente, siano state trovate in Nigeria e Mozambico. Il valore di mercato di questa rara tormalina rimane comunque molto più alto delle altre specie fino a raggiungere quotazioni di migliaia di euro al carato.
Esistono vari tipi di tormaline, divise in base alla composizione chimica e al colore:
           elbaite, Na(Li,Al)3(Al)6[(OH)4/(BO3)3/Si6O18];
           acroite, incolore, a volte con estremità verdi o nere;
           rubellite, da rosa a rosso;
           indicolite, blu o blu-verde;
           dravite, NaMg3(Al)6[(OH)4/(BO3)3/Si6O18]
           uvite, CaMg3(Al5Mg)[(OH)4/(BO3)3Si6O18];

Altra caratteristica peculiare del minerale è la piroelettricità che si manifesta con la generazione di cariche elettriche a seguito di riscaldamento o anche a seguito di un semplice sfregamento (piezoelettricità). Gli olandesi, che introdussero per primi in Europa conoscevano già questa sua caratteristica prima che venissero condotti studi scientifici a riguardo e se ne servivano per “aspirare” la cenere dalle pipe. Un’altra peculiarità piuttosto comune è quella di esibire differenti colorazioni nel medesimo cristallo, molto diffuse sono le tormaline a 2 o 3 colori, una delle più conosciute ed apprezzate è la cosiddetta varietà “watermelon” che, tagliata perpendicolarmente all’asse C in fette più o meno spesse ricorda la caratteristica colorazione del cocomero.
Il diamante
Il diamante, al contrario delle altre gemme, è più pregiato da puro, Il diamante è formato da soli atomi di carbonio che reagiscono a frequenze alte, oltre il visibile, ma, anche in questo caso, se si ha una parziale sostituzione atomica con atomi cromofori, si ha la colorazione della gemma.
Colore. Le gemme del tutto incolori e trasparenti, che sono le più pure, vengono definite "Colorless", seguono le quasi incolori o "Near Colorless" e le colorate o "Slighty Tinted".
I diamanti possono assumere molte colorazioni; il giallo ambrato e il marrone sono le più comuni, il rosso, il rosa e il blu sono le più rare, i diamanti verdi sono estremamente rari.
È da rilevare che i diamanti incolori non appaiono tali alla vista, in quanto le sfaccettature riflettono i colori dell'ambiente circostante; come per altre gemme incolori, muovendole i colori cambiano rapidamente.

LA FISICA DEL COLORE

La Bibbia riporta che Dio ha generato la Terra ed il cielo buio, poi ha generato la luce e l’ha divisa dal buio, infine ha creato l’uomo, le piante e gli animali. Da questa sequenza si evince che la luce è indispensabile alla vita, ma è anche alla visione dei colori.
La visione dei colori è possibile solo quando gli oggetti sono, in qualche modo, investiti dalla luce. La relazione tra colore e luce ha seguito il suo percorso attraverso il tempo e le parole dei saggi.
Aristotele (350 a.C.) riteneva che la luce stesse alla base del colore.  Nel Medioevo si riteneva che la luce fosse il veicolo del colore; Newton invece pensava che la luce fosse il mezzo stesso del colore: “ Il colore risponde sempre al genere, o ai generi, dei raggi di cui consiste la luce….”.
Nel 1678 l’astronomo olandese Christiaan Huygens afferma che la luce non è composta da particelle, ma da onde che si propagano attraverso l’etere.

La luce

La luce, al pari di altre manifestazioni fisiche, esiste grazie alla fenomeno ondulatorio.
Tutti conosciamo i terremoti, le trasmissioni televisive, radiofoniche e telefoniche, i movimenti del mare e il suono, tutti questi fenomeni possono si generano e manifestano attraverso la formazione di onde. Deve essere chiaro che fenomeni diversi si basano su tipi di onda differente, ma tutte queste rispettano alcune leggi generali della fisica. Buttando un sasso in un laghetto in quiete osserviamo la formazione di piccole onde che si propagano tal punto d’immersione del sasso verso l’esterno; questo è un fenomeno comune a tutte le onde, esse si propagano a partire da un punto di origine.
Alcune onde si propagano in mezzi come aria ed acqua, qualcuna anche nel vuoto, come la luce e le trasmissioni radio.
Le onde non trasportano materia (sughero sul mare), ma energia. Un’onda che si propaga è una sequenza di creste e valli intervallate regolarmente. La distanza tra due creste, o valli, consecutive è chiamata lunghezza d’onda, mentre l’altezza tra una valle e una cresta è chiamata ampiezza dell’onda.
Un fuoco, una lampadina, una stella, una candela, un televisore, sono tutte entità che emettono luce, quindi possiamo vederli, non di meno vediamo anche oggetti che non generano alcun tipo di luce, questi sono visibili perché riflettono la luce. La luna e i pianeti sono visibili perché riflettono a luce del sole, vediamo anche il tavolo dove mangiamo perché riflette la luce della lampadina. Altri oggetti invece si lasciano attraversare dalla luce per cui sono trasparenti, come i vetri o certe plastiche.
La luce si genera in un corpo surriscaldato (fuoco, sole, ferro rovente, lampadina) a causa della sovra-eccitazione dei suoi atomi.
La luce è un fenomeno che si trasmette tramite onde di tipo elettromagnetico. Queste sono costituite da due componenti: elettrica e magnetica, sono rappresentate con due onde della stessa lunghezza ed ampiezza disposte a 90° e si trasmettono unite. Nel vuoto queste onde viaggiano alla velocità della luce. Quando ampiezza e lunghezza delle onde diventano molto piccole possono diventare pericolose per la salute dell’uomo.

La luce e i corpi

Quando un raggio di luce colpisce un corpo questo può essere completamente o parzialmente assorbito e/o riflesso o può attraversare lo stesso corpo. Nel caso ci sia una riflessione totale, il corpo apparirà dello stesso colore della luce in arrivo; nel caso della luce solare, questo sarà bianco.
Se il corpo assorbe tutta la luce, questo appare nero. Nel caso di assorbimenti e riflessioni parziali il corpo appare variamente colorato.
Tutte queste possibilità sono stabilite dalle caratteristiche atomiche, molecolari e strutturali del corpo e dalle caratteristiche della luce.
Quando i corpi assorbono la luce si scaldano perché le onde elettromagnetiche sono energetiche (telefonino che si scalda) (il sole d’estate) (Il nero si scalda di più del bianco)

La luce solare

La luce bianca che arriva dal sole è la sommatoria di un gruppo di onde aventi ampiezze e altezze diverse. Il fenomeno dell’arcobaleno ci aiuta a capire, infatti, ogni colore presente nell’arcobaleno rappresenta una diversa onda elettromagnetica e tutte insieme compongono la luce solare. 
L'occhio umano percepisce solo una piccola porzione delle onde elettromagnetiche esistenti in natura, e sono quelle che hanno una lunghezza d'onda compresa tra 400 e 700 nm.
Riusciamo a percepire il colore degli oggetti perché questi assorbono e/o riflettono tutto o parte di ognuna di queste singole onde. Le migliaia tonalità di colore che riusciamo a percepire si devono proprio alle differenti quantità assorbite e riflesse delle singole onde. Un oggetto si colora perché è formato da molecole in grado di assorbire selettivamente la luce incidente a ben determinate fasce di lunghezza d'onda, riflettendo il resto. Nel caso del bianco tutte le lunghezze d'onda vengono riflesse, mentre nel nero tutte le lunghezze d'onda vengono assorbite.
I metalli di transizione sono alla base dei colori in quanto le transizioni elettroniche tra gli ioni hanno frequenze risonanti paragonabili a quelle della luce. Queste frequenze dipendono anche dagli altri ioni che compongono il cristallo e dalla disposizione geometrica complessiva di tutti questi. Per questo motivo lo ione cromo può colorare di verde il berillo e diventare uno smeraldo e di rosso il corindone per generare il rubino. 

La fisiologia del colore.

Diceva Goethe:”…una completa comprensione scientifica del colore ha una dimensione biologica oltre che fisica..”, Maxell affermava che:” ..la scienza del colore deve essere considerata, essenzialmente, una scienza mentale.
Nel 1801 lo scienziato Thomas Young ipotizò che la retina contenesse sensori in grado di vibrare quando colpiti dai raggi luminosi e che questa vibrazione si trasformasse in segnale inviato al cervello tramite il nervo ottico. Young postulò anche che i sensori dovevano essere di tre tipi, uno per ogni colore fondamentale, rosso, giallo e azzurro e che attraverso la combinazione di questi tre segnali si potevano vedere gli infiniti colori percepibili dall’uomo.  
Noi quindi vediamo a colori grazie ai due componenti più complessi del nostro corpo, l’occhio e il cervello.

L’occhio umano

Nella retina umana sono disposte 125 milioni di cellule recettrici in grado di vibrare quando sono investite dalle onde elettromagnetiche della luce. I recettori sono di due tipi, coni, 5 milioni e bastoncelli, 120 milioni. La maggior parte dei coni risiede in un infossamento della retina detta fovea, dove risiede il punto focale del cristallino. Nella fovea sono del tutto assenti i bastoncelli che sono quindi distribuiti nella rimanente area della retina. Quando colpiti dalle onde luminose, coni e bastoncelli inviano segnali nervosi al cervello tramite il nervo ottico.
I bastoncelli non sono in grado di distinguere i colori, ma solo i toni del grigio; entrano in funzione quando la luce ambiente è scarsa, come un paesaggio al chiaro di luna, o alle prime luci dell’aurora.



Nella luce piena del giorno entrano in funzione i coni, mentre i bastoncelli vengono “abbagliati” dalla luce intensa. L’abbagliamento dei bastoncelli è chiaro quando, alla guida, entriamo in una galleria a fari spenti, è buio totale, ma se diamo il tempo ai bastoncelli di rilassarsi dopo l’abbagliamento precedente siamo in grado di vedere la poca luce che filtra dall’uscita lontana della galleria.
I coni si distinguono in tre tipi, quelli dedicati al blu, meno sensibili, al giallo, i più sensibili e i rossi con sensibilità intermedia. Il diverso livello di eccitazione dei tre tipi di cono è alla base degli infiniti colori distinguibili dall’occhio umano.  

Il cervello

Il cervello riceve i segnali elettrici dei coni e bastoncelli e li dispone ordinatamente, in caselle che ripetono la disposizione dei singoli coni e bastoncelli della retina. Per ogni segnale ricevuto il cervello riconosce le giuste quantità riflesse ed assorbite delle singole onde elettromagnetiche che compongono la luce. Sulla base di queste informazioni l’occhio assegna un colore per ogni segnale ricevuto dopo di che fornisce la sensazione di continuità tra un segnali adiacenti in modo che possiamo vedere delle linee continue e non spezzate. Queste elaborazioni cerebrali “inventano” il colore affinché la nostra capacità di vedere sia facilitata. In altre parole i colori non esistono, sono solo onde elettromagnetiche diversamente riflesse ed assorbite dagli oggetti che osserviamo.
Noi percepiamo il colore così come percepiamo il gusto. Quando mangiamo, le nostre papille gustative sono in grado di farci sentire i gusti dolce, salato, acido o amaro, ma queste sensazioni non esistono.
Analogamente, quando osserviamo una scena, i nostri nervi ottici registrano il colore in termini di attributi  quali l’ammontare di rosso-o-verde, di blu-o-giallo, e la luminosità.

La psicologia del colore

“..Il punto di partenza è lo studio del colore e dei suoi effetti sugli uomini..” Kandinskij 1912.
Se dicessi:”…i colori insolitamente trattenuti seguono una cadenza molto ravvicinata: toni rossicci nella figura centrale, ruotano attorno ai rossi rame, bruni e carminio brillante; ricche e delicate sfumature di grigi nella figura in piedi a destra: luminoso blu-grigio argenteo, grigio tortora, grigi blu e turchesi…. Il tono definibile con difficoltà di bruno cangiante del campo alla media distanza assume un agile tono rosa violetto contro i vari toni di grigio dell’immagine sullo sfondo, riecheggiano nel primo piano leggermente oscurato..”
Si vedono le spigolatrici di Millet (1857)? Certamente no, i colori della pittura, come le note della musica, hanno necessità d’essere visti e sentite per raggiungere i sensi e scatenare le emozioni.
La Chiesa comprese bene già nel Medioevo questa verità ed è per questo motivo che le chiese da quel momento, si sono adornate di affreschi. Lo stesso discorso vale per i moderni pubblicitari e designer.

I COLORI 

Il rosa di un quarzo e di un geranio si assomigliano tantissimo, ma la loro origine è molto diversa; il primo deriva dalla presenza di titanio e manganese nel corpo di SiO2 del quarzo, mentre il secondo si deve a molecole molto complesse di C.
Vediamo allora d’inquadrare le origini dei colori nel suo complesso.
Pensando quindi alla loro origine i colori si possono raggruppare in tre famiglie, pigmenti, coloranti e lacche.
I pigmenti possono avere origine minerale e/o organica, mentre i coloranti e lacche sono solo organici, cioè dipendono dalla chimica del carbonio.
Fino al XIX° secolo si sono adoperati solo pigmenti, coloranti e lacche erano di origine naturale (la porpora dai murex, l’indaco da un’erba, il cremisi da un insetto, il rosso dalla radice della robbia); oggi la maggior parte dei colori sono prodotti di sintesi della chimica organica.
In alcuni casi si ha la conservazione del nome originale (rosso robbia), ma la composizione è di sintesi.


I pigmenti

I pigmenti sono costituiti da particelle che hanno dimensioni del millesimo di millimetro, interagiscono con le componenti elettromagnetiche della luce per generare il colore e sono tenute assieme con materiale legante.
Il materiale legante, detto anche mezzo disperdente, può essere neutro o esaltare o smorzare le caratteristiche coloranti del pigmento.  Nel tempo sono stati adoperati molti materiali leganti come, acqua, cera, gomma arabica, tuorlo e albume d’uovo, olio di lino e resina acrilica. 
Quando colpita dalla luce, ogni particella di pigmento riflette solo il colore caratteristico del pigmento stesso. Quanto più le particelle interagiscono con le componenti luminose, più la riflessione è intensa. Inoltre, se l’indice di rifrazione del mezzo disperdente è molto alto, il colore appare molto uniforme e ben diffuso, vivo; se invece l’indice di rifrazione è piccolo, il colore appare traslucido, opaco.
Il tipo di legante da adoperare dipende dallo scopo per cui si impiegano i pigmenti. Di seguito è riportata una tabella che mette in relazione le tecniche pittoriche con i leganti dei pigmenti

Tecnica pittorica
Legante
Affresco
Ca(OH)2 
Encausto
Ca(OH)2  + cera
Tempera
Proteico (uovo, colla)
Acquarello
Gomma arabica
Olio
Olio siccativo
Acrilico
Acqua, resine sintetiche, acetati polivinilici

I pigmenti non sono solubili nel legante, sono molto stabili alle variazioni fisiche di luce e calore e sono inerti nei solventi cui sono immersi.
I pigmenti possono essere di origine inorganica (ossidi minerali) e organica (chimica del carbonio); entrambi assorbono la luce in maniera analoga, attraverso una risistemazione degli elettroni.
Il colore di una vernice dipende quindi da, pigmento, mezzo disperdente e dalle caratteristiche riflettenti e assorbenti della superficie su cui il pigmento è riportato.
I pigmenti sono impiegati nella realizzazione delle opere d'arte e alla loro stabilità si deve la resistenza al tempo, ma il principale campo di applicazione dei pigmenti è quello delle vernici e nella colorazione di:
·      materiali edili
·      materie plastiche
·      fibre sintetiche
·      inchiostri da stampa
·      gomma
·      carta
·      stampa dei tessuti
·      cosmetica.
Esistono anche pigmenti luminescenti che si caricano quando sono esposti alla luce e la rilasciano al buio.
I pigmenti inorganici sono costituiti da molecole contenenti atomi metallici e sono divisibili in classi chimiche come segue:


Classi chimiche
Molecole
(M sta per atomo metallo)
Ossidi
M2O, MO, M2O3
Carbonati
MCO3
Solfati
MSO4
Solfuri
MS, M2S3
Cromati
MCrO4
Silicati
Mn[SiO4]x

Quanto si era visto per i cristalli chiaramente è valido anche per i pigmenti, infatti gli elementi che entrano in gioco per la formazione del colore sono quello che hanno dimensioni atomiche confrontabili con le lunghezze d’onda delle componenti della luce e sono i metalli, soprattutto quelli di transizione.
Nel tempo i pigmenti perdono le loro caratteristiche cromatiche a causa dell’energia assorbita dalla stessa luce solare.
I coloranti
Attualmente si è in grado di produrre strutture cristalline e/o molecole, chiamati coloranti, che sono in grado di riflettere varie composizioni tra le componenti della luce; in questo modo si ottengono migliaia di colori.
I coloranti sono sostanze organiche e solubili ai leganti; sono in grado di colorare gli oggetti attraverso processi di inclusione o reazione chimica.
I coloranti sono additivi chimici ampiamente usati nella colorazione di:
tessuti
carburanti  
Meno impiegati nell'industria della plastica, dei materiali edili e delle vernici dove trovano maggiormente applicazione i pigmenti.
Molte tecniche che usano i coloranti vengono comunemente chiamate tinture, anche per settori industriali differenti dal tessile.
Le lacche
La lacca è un materiale colorante intermedio tra pigmento e colorante; è costituita da particelle minerali incolori (gesso sbriciolato, argilla, gusci d’uovo) che sono “verniciati” superficialmente, con un colorante organico. Di seguito sono riportate origine e formule di alcune lacche.
  
·      Lacca di robbia colorata con alizarina: (C14H8O4)  
·      Lacca di robbia colorata con porporina: (C14H8C5)  
·      Lacca di Kermes o cremisi e cocciniglia: (C22H20O13) con acido carmico
·      Lacca di Kermes o cremisi e cocciniglia: (C16H10O8), con acido Kermesico
·      Lacca indaco colorata con indigotina: (C16H10N2O2) dalla pianta indigofera tinctoria 
·      Lacca porpora colorata con dibromoindigotina (C16H8Br2N2O2) di origine fenicia


Attualmente anche le lacche sono prodotti di sintesi anche se mantengono i riferimenti alle origini naturali. Per esempio la lacca di robbia non è più prodotta con le radici della Robbia, ma per sintesi.



I COLORI NELLA STORIA DELL’ARTE.

INTRODUZIONE

Le nuove scoperte mettono in discussione le conoscenze precedenti, aprendo nuove vie di ricerca. L’arte non è scevra da questa dinamica; nuove scoperte scientifiche permettono di sviluppare modalità espressive diverse. Nell’ultimo secolo l’artista ha utilizzato, materiali e strumenti messi a disposizione dalla scienza e dalla tecnologia. Dai primi pigmenti naturali usati nel Paleolitico, si è passati ai colori sintetici e a materiali come, polistirolo tessuto, metallo, legno…
Scopo di questo scritto è quello di mettere in relazione l’evoluzione della fisica e chimica con un aspetto dell’arte, la pittura.

DIPINTI DEL PALEOLITICO E NEOLITICO

Paleolitico (300.000 – 10.000)

L’arte paleolitica compare ufficialmente circa 40- 35.000 anni fa, anche se alcuni sostengono che
alcune manifestazioni artistiche si collocano in epoca precedente.
Di certo possiamo dire che i primi segni certi di attività a carattere simbolico compaiono in Europa solo con l’uomo di Neandertal, mentre  in Oriente e in Africa con l'uomo anatomicamente moderno e nostro antenato, il Cro Magnon.
I Neanderthal raccoglievano e utilizzavano coloranti minerali, come l’ocra rossa, già verso la fine della glaciazione di Riss per poi continuare nell’ultimo interglaciale e nella prima parte della glaciazione di Wurm; con le ocre si dipingevano il corpo. In alcuni casi blocchetti di ocra sono stati rinvenuti insieme a macinelli di granito all’interno di grotte non dipinte, segno che il loro utilizzo non era l’arte parietale. Per questo non va sottovalutato l’aspetto utilitaristico del pigmento ocra,
l’ocra rossa protegge la pelle dai morsi degli insetti ed è disinfettante in quanto è un inibitore batterico.
L’uomo di Neandertal oltre ad usare l’ocra rossa e gialla, raccoglieva oggetti curiosi come le conchiglie, fossili e i cristalli, inoltre incideva le ossa con linee geometriche. Sempre i Neanderthal avevano iniziato ad inumare i loro morti colorandoli di ocra rossa e accompagnandoli con cristalli e conchiglie. La comparsa di queste sepolture rituali è segno della loro credenza di una vita dopo la morte.
Le più antiche manifestazioni artistiche sicuramente datate sono state rinvenute nella caverna
Blombos nel Sud-Africa. Si tratta di due parallelepipedi di ocra rossa, che recano su una faccia un
motivo geometrico inciso con la punta di uno strumento di selce e costituito da linee diagonali
intersecatesi in modo da formare una sequenza di rombi. Lo strato archeologico dove sono state
rinvenute è stato datato a circa 77.000 anni fa, si tratta quindi della più antica manifestazione di arte
finora conosciuta. Sottolineiamo il fatto che si tratta di arte non figurativa; possiamo quindi dire che le manifestazioni artistiche di carattere astratto hanno preceduto quelle figurative.
Questa fase, definita “pre-figurativa”, culmina agli inizi del Paleolitico superiore con la comparsa
dei primi ornamenti fatti con denti animali (soprattutto volpe polare, orso e cervo) che venivano
perforati per poi essere usati come ciondoli o collane.
Ma è solo con la cultura aurignaziana, agli inizi del Paleolitico superiore, che compare l’arte figurativa insieme a quella astratta. Evidentemente fu il progressivo intensificarsi delle astrazioni
simboliche e delle esigenze spirituali che portò alla manifestazione artistica, fu un processo durato
qualche decina di migliaia di anni. L’arte si manifestò solo con l’uomo di tipo anatomicamente
moderno, che aveva ormai dei complessi processi cerebrali che rendevano possibili la capacità di
esprimersi, avere una coscienza, una memoria, una fantasia, dei sentimenti, una capacità deduttiva e tutte quante le altre manifestazioni psichiche che ci caratterizzano.
Da quanto abbiamo detto fino ad ora sorprende il fatto che l’uomo abbia iniziato a fare arte in modo astratto per poi imboccare la strada del formale. La strada del formale è stata così lunga fino ad arrivare alla metà del “900” quando l’astratto è ricomparso con Kandinskij e gli espressionisti astratti americani.

L’arte del Paleolitico superiore può essere divisa in due categorie:

1. l’arte rupestre o parietale, ovvero l’ arte delle caverne: comprende incisioni, pitture e rilievi
eseguiti sulle pareti o sui soffitti delle caverne, su pareti di ripari sotto roccia o su superfici rocciose
all’aperto. E’ diffusa nella regione franco-cantabrica, ovvero nella Francia sud-occidentale
(Aquitania e Pirenei) e Spagna settentrionale (Asturie, Cantabria e Paese basco) dove sono noti oltre
160 siti. La maggior parte di essi si trovano nelle valli della Dordogna e dell’Ariège, sul versante francese dei Pirenei e lungo la costa settentrionale della Spagna. Solo 21 grotte sono note nella Francia meridionale, altre 14 nel resto della Francia e 23 nel resto della penisola iberica. Al di fuori di queste aree l’arte parietale è rarissima, ve ne sono una decina di esempi in Italia (ad es. la grotta del Caviglione ai Balzi Rossi, la grotta Fiumane in provincia di Verona, quella Pagliacci nel Gargano, la grotta Romanelli nella penisola salentina, il riparo Romito di Papasidero in Calabria, Cala Genovese nell’isola di Levanzo, l’Addaura e la grotta di Niscemi presso Palermo), 1 in Romania, 3 negli Urali meridionali.

2. l’arte mobiliare (dal francese “mobilier”) ovvero l’arte dei piccoli oggetti facilmente trasportabili,
può essere suddivisa in:
(a) ornamenti (pendagli, rondelle e figure ritagliate da osso o corno di renna);
(b) lastrine di pietra o di osso con figure graffite di figure umane e/o di animali;
(c) armi e utensili (punte di arpioni, propulsori, zagaglie, bastoni forati, spatole) che possono essere
decorati con incisioni, a rilievo o con figure scolpite a tutto tondo;
(d) statuette umane e animali in pietra, osso, corno, avorio, argilla.
Differentemente dall’arte parietale, quella mobiliare è presente in tutta Europa e nella Siberia
meridionale, in genere è stata rinvenuta nelle aree abitative sia in siti all’aperto, sia in caverne o in
ripari sotto roccia.

Materiali e Tecniche esecutive dell’arte parietale

Solo in alcuni casi le incisioni o le pitture vennero eseguite nella parte della grotta illuminata dalla
luce del giorno, più spesso infatti l’arte parietale si rinviene nelle parti completamente oscure,
molto all’interno della grotta, dove era necessario avere con sé un’ illuminazione artificiale.
Infatti in alcune grotte sono stati rinvenuti i carboni di pino caduti dalle torce usate per illuminare. Un altro mezzo d’illuminazione erano le lucerne di pietra, alimentate da grasso animale e con
uno stoppino. Questo tipo di luce è molto fioca, di molto inferiore a quella di una candela, ma
doveva essere sufficiente per muoversi all’interno della grotta, come è stato anche appurato per via
sperimentale. Molti dei dipinti parietali si possono riconoscere solo con una luce fioca tangente la parete, cioè riproducendo la situazione originaria che si aveva durante l’esecuzione delle pitture.
Gli artisti paleolitici sfruttavano le gibbosità e le concavità delle pareti per ottenere il senso del volume delle figure che andavano a disegnare. Una gibbosità poteva diventare il dorso di un bisonte per esempio.
Le incisioni su pareti e oggettistica erano eseguite con un utensile di pietra dura come la selce.
In alcuni casi le immagini erano eseguite con una linea di contorno impressa nel sottile strato di
argilla. Le pitture si conoscono solo nell’arte parietale, forse anche per il fatto che soltanto nel profondo delle caverne, le opere pittoriche hanno avuto la possibilità di conservarsi fino ai nostri giorni.
A volte la figura colorata era preceduta da un disegno inciso, a volte invece l’incisione era successiva e serviva a mettere in evidenza alcuni particolari anatomici.
La tavolozza Paleolitica era fornita dall’ambiente circostante. Le grotte si aprono in rocce calcaree e queste sono sempre circondate da ocre, ossidi e idrossidi di ferro. Sono queste le “terre” rosse e gialle alle quali si aggiungono l’ematite, il carbone vegetale, il gesso e l’ossido (e biossido) di manganese. Il biossido di manganese colora di scuro tutte le terre intorno ai giacimenti per questo motivo, nel rinascimento, veniva chiamato “terra d’ombra”.
I pigmenti, prima di essere adoperati, dovevano essere preparati, macinati per essere ridotti in polvere, poi venivano miscelati con un legante che poteva essere, acqua, olio d’oliva, uovo e grasso animale. La pittura Paleolitica era dunque un’attività vera e propria, con le sue procedure. In alcuni casi sono stati adoperati additivi (feldspati) per rallentare il processo di essicazione del colore.
La colorazione avveniva per mezzo di, pennelli, dita, cannucce, tamponi.
Le figure a campitura ampia erano spesso eseguite con la tecnica della “soffiatura”, l’ocra rossa o gialla veniva masticata e poi soffiata o sputata sulla parete per ottenere il riempimento della
figura con una tinta piatta e uniforme. La “soffiatura” del colore poteva essere realizzata anche con l’uso di un tubicino di osso riempito di colore ridotto in polvere, un po’ come con l’aerografo. Mani e mascherine erano usate per ottenere i contorni precisi delle figure.
Per applicare il colore poteva essere utilizzato anche un tampone di pelliccia, soprattutto quando si voleva ottenere l’effetto sfumatura. Il colore poteva anche essere sfregato sulla parete con la punta delle dita fino ad ottenere zone più o meno colorate per dare l’effetto sfumato. La maggior parte delle pitture sono monocrome, la linea di contorno poteva essere nera o rossa. Le figure bicrome, a colore rosso e nero, sono meno frequenti, quelle policrome, che impiegano tre colori, sono piuttosto rare.
Nell’arte paleolitica è presente anche la plastica documentata da basso e alto rilievi eseguiti su lastre di calcare e lungo le pareti rocciose di ripari. Questi venivano realizzati utilizzando le linee e i volumi della roccia stessa. Vi sono anche rilievi modellati nell’argilla umida del fondo delle grotte, come i celebri bisonti del Tuc d’Audoubert. E’ interessante ricordare come queste ultime figure sono state eseguite scavando l’argilla attorno, esattamente come se si fosse trattato di una roccia dura; questo fatto ne ha favorito la conservazione.
La pittura parietale inizia con l’uomo di Cro Magnon nel Paleolitico Superiore. Nella Grotta “El Castillo” in Spagna si sono trovati i primi dipinti, datati intorno ai 41.000 anni fa, si tratta di disegni di animali riprodotti solo come profili vuoti che si affiancano a numerosissime rappresentazioni geometriche astratte o simboliche e ai negativi delle mani degli autori.
A 30.000 anni fa risalgono i stupendi disegni di leonesse, rinoceronti e cavalli ritrovati nella grotta “Chauvet” in Francia. L’arte Paleolitica vede la sua massima espressione nelle grotte di Lascaux in Francia e Altamira in Spagna. Qui, Bisonti, cavalli e cervi sono rappresentati tridimensionalmente sfruttando la morfologia delle pareti. I colori ricoprono tutto il corpo ed è stupefacente lo studio prospettico attraverso il quale si facilita la visione del movimento e della tridimensionalità.

Neolitico (10.000 – 5.000)

Nel neolitico, salvo rari casi, le pitture non sono più eseguite all’interno delle grotte, ma nei ripari sotto roccia. In questo periodo, oltre ai soliti ossidi di ferro, è adoperato il bianco ottenuto con la calcinazione delle ossa. Ne sono esempio le pitture rupestri del Sahara algerino.
Nel Neolitico la rappresentazione umana acquisisce un’importanza fondamentale, al contrario del Paleolitico dove era rara ed eseguita con poca maestria, quasi astratta. L’uomo è quindi protagonista è rappresentato singolarmente o in gruppo, in atteggiamenti di caccia, lavoro o rituali. le pitture parietali del Neolitico sanciscono il passaggio dall’uomo transumante, cacciatore e raccoglitore a quello stanziale, allevatore e raccoglitore.
Nei paesi nord africani si sono conservati molti siti ricchi di queste raffigurazioni Neolitiche. In quei tempi, ove ora è il deserto, esistevano foreste fiumi e laghi. Nei ripari sotto roccia erano rappresentati animali, scene di vita quotidiana e riti sciamanici.

GLI EGIZIANI (4000 – 100 A.C.)

Alla fine del Neolitico inizia lo sviluppo della civiltà egiziana. In quel periodo il Nord Africa si inaridisce costringendo le popolazioni a rifugiarsi lungo le sponde del Nilo. Negli stessi anni si sviluppa anche la società sumerica in Mesopotamia che si imposta tra i fiumi Tigri e Eufrate. Intorno a 3000 a.C. tra le due società si intensificano gli scambi commerciali e culturali. A questo periodo vanno ascritte alcune scoperte che hanno permesso lo sfruttamento delle caratteristiche geologiche del territorio per lo sviluppo della metallurgia.
Elenchiamo quali sono le conoscenze metallurgiche degli egizi.
Dalla malachite (Cu2(CO3)(OH)2 e azzurrite (CU3(CO3)2(OH)2 si estrae il rame e si ottengono pigmenti, rispettivamente,  verdi e azzurri.
Dalla galena (PbS)si ricava un colorante nero per il trucco e uno bianco, la biacca, inoltre si estrae il piombo.
Dalla cassiterite (SnO2) si estrae lo stagno che se legato con il rame fornisce il bronzo (Età del bronzo).
Dalla blenda (ZnS) si ottiene un pigmento bianco e si estrae lo zinco che in lega con il rame fornisce l’ottone.
Dal gesso e dal caolino si ottengono pigmenti bianchi che si aggiungono a quelli ottenuti con la calcinazione delle ossa.
Dall’Afghanistan arrivano i lapislazzuli con i quali si ottengono i pigmenti azzurri blu e l’orpimento (As2S3 solfuro di arsenico) dal quale si ottiene il giallo oro.
Dal Kurdistan arriva il realgar (As4S4, altro solfuro di arsenico) dal quale si ottengono i pigmenti arancio, il turchese (fosfato di rame e alluminio) usato in gioielleria e le terre d’ombra (biossido di manganese).
Dalla stilbite (Sb2S3, solfuro di antimonio) si ottiene il giallo egizio.
Il ferro è ottenuto dalle meteoriti o estratto dall’ematite, lo zolfo è di origine nativa e dal cinabro (HgS) si ottiene il mercurio.
Il natron (Na2CO3.10H2O, carbonato di sodio idrato) viene usato per l’imbalsamazione e per la produzione del vetro.
La calce (Ca(OH2)) ottenuta per calcinazione e successiva idratazione del carbonato di calcio.

Alchimie ante literam

Gli antichi egizi diedero grandissima importanza alla pittura e fecero immensi sforzi nella ricerca di nuovi pigmenti; le loro conoscenze chimiche non temono confronti con quelle europee di 4000 anni più moderne.
Alcuni colori scoperti e usati nell’antico Egitto sono in uso ancora oggi, ne sono esempio, la biacca, il blu egizio (fritta egizia) e il giallo egizio, (giallo Napoli).
Ma per capire come gli egiziani praticassero già la chimica prendiamo ad esempio la produzione della biacca. Striscioline di piombo erano adagiate su di un letto si letame animale in un vaso di terracotta al cui interno si trovava anche un vasetto d’aceto. I vapori dell’aceto attaccavano il piombo formando l’acetato di piombo che poi si trasformava in carbonato basico di piombo grazie all’anidride carbonica prodotta dalla fermentazione degli escrementi animali.
La scoperta di questa tecnologia ha poi permesso la produzione di altri colori, come il giallo litargirio (PbO) ottenuto arrostendo la biacca e il rosso del minio (Pb3O4) ottenuto arrostendo direttamente la galena.
Il giallo egizio (giallo lino nel Medioevo e giallo Napoli oggi) è un antimoniato di piombo che gli antichi egizi sintetizzavano con l’ausilio di reagenti come, ossido o carbonato di piombo, e ossido di antimonio, anch’essi ottenuti per sintesi. 
Il “blu egizio” o “fritta egizia” era prodotto già 2500 a.C. con una formula definita e costante. Consisteva nel miscelare, una parte di ossido di calcio, una parte di ossido di rame e quattro parti di silice (sabbia silicea). La miscela va cotta in una fornace ad una temperatura compresa tra 800°C e 900°C. Alla fine dalla cottura si otteneva un materiale fragile di colore blu il quale veniva macinato fino a renderlo polvere. Tutto ciò avveniva nell’età del bronzo; il blu egizio è quindi il più antico pigmento dovuto ad una sintesi
Questo colore è stato il principale pigmento azzurro usato in Egitto, fu utilizzato anche nel Rinascimento al posto dell’azzurrite perché più stabile. E’ probabile che questa tecnologia arrivasse dalla Babilonia dove quest’azzurro era ampiamente adoperato per la produzione di piastrelle.
Il giallo egizio (PbSbO4, antimoniato di piombo) si otteneva per reazione, ad alta temperatura, la Stibina con un sale o ossido di piombo. I pigmenti gialli si ottenevano anche facendo reagire, ad alta temperatura, la biacca con la cassiterite.

La pittura egizia.

Da quanto riportato in precedenza si evince la grande differenza tra la tavolozza paleolitica rispetto a quella egiziana. I soggetti raffigurati dai pittori egiziani si accostano a quelli neolitici.
La pittura dell'antico Egitto è caratterizzata da grande vivacità e ricchezza e segue un tipo di espressività astratta e concettuale. 
Lo spazio è riportato su due dimensioni, le composizioni seguono criteri simbolici, le forme si sviluppano con grande eleganza ed essenzialità. I colori sono puri e brillanti, si dispongono armonicamente e con accostamenti a contrasto. Come tutte le arti praticate in questa civiltà, anche la pittura è una pratica religiosa, dedicata agli dei.
Gli artisti venivano educati fin da piccoli a seguire le regole della pittura perché ogni elemento (colore, forme, composizione, ecc.) era collegato a precisi significati sacri. Per diventare un artista era quindi necessario possedere una solida cultura religiosa oltre alle necessarie conoscenze tecniche riferite alla pratica artistica.
Tutto era sottoposto a precise regole da rispettare, ad esempio nella rappresentazione della figure umane i corpi erano sempre  perfettamente proporzionati, grazie al rispetto dei canoni egizi. Anche le azioni rappresentate dovevano seguire determinate convenzioni rappresentative.
Pertanto, la stilizzazione e la sintesi tipica della pittura egiziana sono conseguenze di queste regole. Al contrario dei loro predecessori, i pittori egiziani non potevano rappresentare ciò che volevano, ma quanto richiesto dai loro committenti, faraoni e sacerdoti.
Nell'antico Egitto, la tecnica usata dagli egizi per dipingere era la campitura cioè veniva steso in maniera uniforme il colore dentro una forma delimitata da un contorno. 
Le fasi di esecuzione erano affidate a equipe di artisti, ognuno dei quali era specializzato in un lavoro diverso: Il progetto era affidato al maestro, le altre operazioni come la preparazione delle pareti, il disegno dei contorni, il riempimento con il colore, veniva eseguito da altri gruppi di artisti. Il risultato era quindi un'opera collettiva.
I colori venivano riprodotti con una miscelazione di pigmenti ottenuti dalla macinazione di terre colorate con agglutinante sostanza collosa formata da acqua, lattice di gomma e albume d'uovo. Il colore veniva steso con dei pennelli ricavati dalle fibre di palma.
Questo tipo di pittura si chiamava tempera (dal latino temperare, mescolare) e veniva fatta su superfici perfettamente asciutte e al riparo di piogge poiché si  utilizzava l'acqua.

La tomba di Itet, del 2600 a.C., è ricca di colori, il verde e azzurro del rame, il rosso dell’ematite, il bianco del gesso, l’ocra gialla dell’idrossido di ferro, il bruno delle terre d’ombra di manganese e carbone.
La pittura riveste un ruolo secondario rispetto alla scultura e all’architettura, ma i pittori erano posizionati ad un livello medio alto nella piramide sociale, mentre gli architetti appartenevano alla casta sacerdotale, quindi altolocati.
A 1250 anni dall’esecuzione delle pitture nella tomba di Itet, circa nel 1350 a.C., la tavolozza dei pittori egiziani si arricchisce di nuovi colori e delle rappresentazioni naturalistiche, ne sono esempio la tomba di Nebamon e quella di Nefertiti. In quest’ultima è stata trovata una maschera funeraria molto ricca di pigmenti e di rara perfezione.
Uno dei cicli pittorici più belli e completi è quello che caratterizza la Tomba di Nefertari, una delle mogli più famose di Ramses II. I dipinti vennero realizzati a tempera su un intonaco fine formato da argilla e limo.
I colori utilizzati erano il marrone usato per la pelle degli uomini, il verde per le vesti, l'ocra per la pelle femminile, nero per le linee e capigliature e il blu usato per il soffitto a stelle.
E’ verosimile che gli egizi fossero già in grado di produrre la lacca di kermes, con un procedimento piuttosto complicato, ma riportato in trattati posteriori. le cocciniglie venivano schiacciate entro un panno il quale si colorava per assorbimento della poltiglia rossa. Poi lo si faceva  bollire nella lisciva per distaccare il colore. Una volta raffreddato il liquido vi si immergeva la polvere di allumina (idrossido di alluminio) che, granello per granello, assorbiva la tinta rimasta in soluzione. Alla fine dell’evaporazione del liquido si otteneva una polvere rossa.
A cavallo dell’anno zero, durante la conquista romana dell’Egitto si sviluppa una pittura verista eccezionale. I nobili romani, alla loro morte, si facevano imbalsamare essi stessi, ma a differenza degli egiziani, sotto alle bende facciali veniva posta una tavoletta dipinta con il volto del defunto in vita. Sono ritratti di una veridicità sconosciuta fino a quel momento.

LA NASCITA DELL’ALCHIMIA

L’antica alchimia era un mélange di pensiero pre scientifico e di pratiche magiche e religiose, un incontro in grado di esistere grazie alla struttura della società egiziana. Le attività artigianali (tintori, fabbri, imbalsamatori, fonditori tessitori vetrai) avvenivano all’interno delle aree dei templi.
Quindi tutto ciò che di scientifico si scopriva empiricamente e non, acquisiva un’aura mistica, come se ogni scoperta fosse voluta dalle divinità. Queste conoscenze sono state alla base della chimica moderna. I fonditori egizi sapevano già che il rame si ricavava dalla malachite, a prescindere che questa provenisse da Cipro o dal Sinai, un concetto che poi sarà formulato nel 1974 dal chimico francese Proust.
Con la caduta della civiltà egizia le conoscenze alchemiche acquisite non sono disperse, ma raccolte in scritti su papiri e conservati nella biblioteca di Alessandria.  Alla conquista araba quest’istituto venne bruciato, ma greci e arabi avevano già tramandato alcune di quelle conoscenze con traduzioni. In un papiro di età ellenistica si trova infatti una procedura per la preparazione di opere d’arte dell’antico Egitto.


IL PERIODO GRECO LATINO (400 a.C. – 500 d.C.)

LA PITTURA PRE-ELLENISTICA.

Nell’isola di Creta si sviluppò, intorno al 2000 a.C., la città di Cnosso, il gioiello della civiltà minoica. La città di Cnosso non era fortificata, i minoici controllavano l’intera isola di Creta, e li vivevano artigiani di grande capacità, soprattutto pittori. La loro opera è viva ancora oggi nelle numerose rappresentazioni pittoriche ritrovate durante gli scavi della città. Cnosso fu distrutta intorno al 1700 a.C. da un terribile terremoto, quello che distrusse l’isola di Thera, l’attuale Santorini.
Negli affreschi si nota una certa continuità con la pittura egizia, sia come soggetti sia come tipo di rappresentazione. Le persone sono rappresentate di profilo con gli occhi visti di fronte. Anche i colori usati sono identici a quelli egiziani. Il rosso deriva dall’ematite, il nero dal carbone, l’azzurro è identico al blu egizio ed il bianco dal gesso.
Le differenze comunque ci sono, le figure di Cnosso mancano di sfumature e chiaroscuri; questo particolare fa si che la pittura minoica rappresenti la transizione tra quella egizia e la greca.

LA PITTURA GRECA

La pittura parietale greca si conosce attraverso i ritrovamenti delle colonie come Paestum, in quanto quelle residenti in patria sono andate perse quasi completamente.
Anche la pittura greca avveniva in affresco, dove la calce spenta Ca(OH)2 diventando carbonato di calcio CaCO3 ingloba e protegge i pigmenti. Ne è esempio il tuffatore di Paestum per il quale sono stati usati pigmenti già conosciuti dagli egizi.
Nell’antica Grecia era comunque in uso la colorazione di statue e monumenti con colori accesi ed anche con l’uso della polvere d’oro.
I colori più adoperati, estratti da elementi di origine minerale, vegetale e animale, erano il rosso, il giallo, l’azzurro e il bianco, e tutte le sfumature ottenute dalla loro unione. Il colore rosso si otteneva con materiali come il cinabro (un solfuro di mercurio rosso, HgS) e l’ematite (ossido ferrico), e, almeno nella scultura, veniva utilizzato, oltre che per dipingere il chitone rosso, anche per la resa di pelle, occhi, capelli, criniere e ciuffi di animali; il giallo da ocre (ossidi ferrosi naturali e idrossidi di ferro) e limoniti, come ad esempio l’orpimento (trisolfuro di arsenico), contemplato soprattutto per il vestiario, comprese armature e armi, e le capigliature; l’azzurro da elementi come l’azzurrite, il blu egiziano e l’armenian blue, composto da polvere di lapislazzuli, utilizzato soprattutto per rendere il vestiario, la criniera di animali e il fondo dei rilievi funerari; il bianco veniva estratto dal bianco di calce e dalla biacca (carbonato di calcio). Colori invece come il verde, il nero e il marrone si ricavavano dall’unione dei vari elementi che componevano i colori primari, o dalla combustioni di ossa animali, ed erano impiegati soprattutto per la resa del vestiario.
Quanto sappiamo oggi delle tecniche e dei colori usati lo dobbiamo agli storici romani e alle analisi chimiche eseguite sulle superfici delle statue.
I greci erano molto bravi nella produzione e decorazione del vasellame.
L'argilla utilizzata per produrre i vasi greci è un'argilla bianca comunemente detta caolino. In base alla località di estrazione può, dopo la cottura, assumere colorazioni differenti e ciò è dovuto alla composizione chimica del terreno più o meno ricco di ossidi di ferro. Una volta estratta, l'argilla veniva finemente raffinata tramite setacciamento e decantazione e solo dopo posta sul tornio e modellata. A questo punto il vaso veniva lasciato ad essiccare, rigorosamente all'ombra, fino a che l'argilla cruda non raggiungeva uno stato particolare detto "durezza cuoio". Aggiunte poi anse e piedi, il vaso veniva dipinto con un sottilissimo strato di argilla purificata detta ingubbio e infine posto nella fornace di particolari forni a pozzo per essere cotto.
L'ingubbio nero, detto impropriamente vernice, è un preparato a base di argilla utilizzato per decorare i vasi nel mondo greco antico. I vasi greci non venivano infatti decorati con semplice vernice ma con un sottilissimo strato di argilla raffinata, purificata e decantata contenente ferro; durante il complesso processo di cottura del vaso nel forno il ferro si ossida  assume il caratteristico aspetto lucido che contraddistingue le forme vascolari greche.
I colori rosso o nero che contraddistinguono i vasi attici derivano in realtà dalla stessa vernice, che veniva ricavata nelle vicinanze di Atene. L’ossido ferrico, rosso, di cui era ricca questa vernice si trasformava in ossido ferroso nero, qualora venisse cotta in un forno privo di ossigeno.
Il processo era reversibile e, purché si reintroducesse l’ossigeno in forno, la vernice da nera tornava rossa. La trasformazione di colore richiedeva però un certo tempo di cottura, che era maggiore quanto più spessa era stata data la vernice.

Dall’alchimia alla nascita della filosofia naturale.

Come si evince da quanto detto in precedenza, le scoperte alchemiche degli egizi e dei mesopotamici transitano, attraverso la biblioteca di Alessandria, a greci e latini. E’ quindi probabile che le formulazioni di Aristotele (IV° secolo a.C.) riguardo il mondo naturale abbiano avuto solide radici nelle conoscenze alchemiche egiziane. Ne è esempio la sua convinzione che tutto il mondo materiale sia dato dalla combinazione di quattro elementi, terra, aria acqua e fuoco; che la materia è divisibile all’infinito e che il vuoto non può esistere.
Ancora prima di Aristotele, Democrito aveva postulato che la materia era costituita da atomi e che tra gli atomi esistesse il vuoto. La teoria atomistica formulata da Democrito ha anch’essa radici profonde nel tempo e portano fino ai fenici, un popolo di navigatori e commercianti che tanto avevano da scambiare con gli egizi, anche la cultura.

LA PITTURA LATINA

Della pittura romana, le prime testimonianze sono appunto i ritratti di Fayyum delle mummie romane seppellite in Egitto, seguono poi le pitture parietali salvatesi a Pompei.
Nei ritratti su tavola di Fayyum troviamo alcune novità, la tecnica a encausto che fa uso di cera d’api come legante e alcuni pigmenti nuovi:
 minio (Pb3O4) rosso
stannato di piombo (Pb2SnO4) giallo
Il minio veniva ottenuto per riscaldamento della biacca, il suo nome deriva dal latino minium miniare, colorare con il minio. Nelle raffigurazioni dei codici medioevali si faceva grande uso del minio ed è per questo motivo che sono anche chiamati codici miniati.
Fino al ritrovamento della necropoli dell’oasi di Fayyum, si riteneva che lo stannato di piombo nascesse solo nel Medioevo. La stessa storia riguarda un altro giallo, il silicostannato di piombo, già conosciuto dagli assiri babilonesi per la costruzione di ceramica gialla e che se macinato da un pigmento chiamato giallolino, ritenuto, erroneamente, scoperto nel Medioevo.
Nelle ville di Pompei domina il rosso pompeiano (rosso brillante) e la naturalezza delle figure femminili ritratte nelle varie angolazioni e dei drappeggi delle loro vesti. Tramonta quindi definitivamente la rappresentazione di profilo delle figure.
Il rosso pompeiano era ottenuto con ematite e con cinabro (solfuro di mercurio) a seguito di una sapiente macinazione e miscela. Anche in questo caso la conoscenza di questo pigmento si perderà per poi essere riscoperta nel Medioevo.
Il blu di Pompei continua a essere quello egiziano mentre il viola è una miscela di quest’ultimo con l’ematite. I verdi erano ottenuti da sali di rame e silico alluminati di ferro, glauconite e celadonite, detti anche “terre verdi”.
Nella società romana i pittori erano liberti o schiavi nella bottega di un imprenditore. Le botteghe più in auge avevano un maestro che dirigeva le opere. In ogni caso i pittori non appartenevano alle classi agiate in quanto lavoratori manuali.
Secondo la testimonianza di Plinio la pittura romana raggiunse la sua massima espressione nei dipinti della “Domus Aurea” eseguiti probabilmente grazie alle conoscenze ed esperienze di artigiani dell’intero bacino mediterraneo.

La tintura dei tessuti.

Alle conoscenze attuali i tessuti hanno iniziato ad essere dipinti intorno al 3000 a.C. I tessuti colorati ed i gioielli avevano lo stesso valore nell’ambito della vanità dei popoli nel bacino del Mediterraneo. I fenici erano maestri nella costruzione dei gioielli e nella colorazione dei tessuti ed inoltre erano esperti navigatori e abili commercianti. Gli egizi conoscevano già il rosso porpora , ricavata dal murice, ed il blu indaco, entrambi commerciati   dai fenici. I romani conoscevano la robbia e il kermes, entrambi rossi, il primo ricavato da un insetto della quercia, Kermes vermilio,  il secondo dalle radici della Rubia tinctorum.
La robbia si è usata anche nel tardo Medioevo con l‘affermarsi della tecnica ad olio.
La fissazione dei pigmenti alle stoffe avveniva tramite l’allume (solfato idrato di alluminio e potassio) che si aggrappava al tessuto trattenendo i pigmenti. L’allume, oltre a fissare i pigmenti li rende particolarmente brillanti.

I COLORI DEL MEDIOEVO  (500 – 1450 d.C.)


Nel Medioevo, il calo della popolazione coincise con la riduzione delle attività culturali ed al frazionamento delle conoscenze scientifico alchemiche che si erano stratificate nei millenni precedenti, dalla civiltà Mesopotamica a quella Romana.

L’ALCHIMIA ARABA.

Con la caduta dell’Impero Romano non tutto fu perduto in seno alle arti, continuarono a essere attive quelle metallurgiche, vetrarie e tintorie.
Le scienze alchemiche furono raccolte e ulteriormente sviluppate dagli arabi che le integrarono co conoscenze provenienti  da India e Cina. I concetti di distillazione, sublimazione e cristallizzazione furono espressi proprio dagli arabi e furono essi, attraverso il loro più grande alchimista Jabir ibn Hayyan noto come Geber (nato nel 722 d.C.) a portare la pratica empirica dell’alchimia alla neo-scienza della chimica. Questo passaggio fu favorito anche dall’uso di strumenti in vetro soffiato, un materiale inalterabile e resistente agli attacchi chimici.
A Geber vanno ascritte le scoperte dell’acido acetico, acido cloridrico, acido solforico, acido nitrico, soda caustica e acqua regia, quest’ultima in grado di corrodere l’oro. Quest’ultima scoperta fu im motivo trainante della chimica per il millennio successivo, la trasformazione delle sostanze in oro e viceversa, la cosiddetta trasmutazione.
Gli arabi, dunque, svilupparono l’alchimia, perfezionarono l’estrazione del mercurio dal Cinabro e della reazione dello zolfo e con queste conoscenze sintetizzarono il rosso vermiglione (solfuro di mercurio).  La scoperta di questo rosso brillante fu molto importante per la pittura del medioevo perché permise di sviluppare alti standard cromatici come le lacche rosse, il blu oltremare e la lamina d’oro. La stessa sintesi venne ottenuta contemporaneamente in Cina. Un’altra sintesi importante fu quella dell’orpimento (As2S3) giallo oro. Nel Medioevo si riscoprirono altri due gialli conosciuti già in età babilonese ed egizia dovuti alla sintesi di piombo stagno e silice.


LE CROCIATE E LE REPUBBLICHE MARINARE.

Gli eventi legati alle crociate e i commerci delle Repubbliche marinare, soprattutto Venezia, portarono in Europa le conoscenze alchemiche-chimiche degli arabi. Nel XII° secolo  arrivarono a Venezia le tecniche, vetraria, la produzione di pigmenti, l’uso del lapislazzuli, le lacche (dal mondo arabo e cinese) e da qui si diffusero in tutta Europa.
Nel tardo Medioevo, ne arrivarono di nuovi, di grande impatto emotivo. Si iniziò ad usare il blu oltremare dei lapislazzuli e dell’azzurro dell’azzurrite, il rosso brillante del vermiglione e le lacche rosse di robbia. Nel 300 Duccio da Boninsegna abbinò questi colori con la patina d’oro. Da qui in poi questa tecnica fu poi ripresa da molti artisti tra cui il Masaccio, Giotto, Masolino, Simone Martini.
La lamina d’oro aveva lo scopo di sostituire il giallo ma questo colore era ottenuto anche con l’orpimento, anch’esso molto costoso quindi usato solo per gli abiti dei personaggi importanti.
L’orpimento deve il suo nome dal latino aurum = oro + pigmentum = pigmento, dal punto di vista minerale è un solfuro di arsenico As2S3 ed è quindi un pigmento molto nocivo ed è stato usato fino a due secoli fa quando la tecnologia ha permesso d’ottenere pigmenti migliori e meno pericolosi. L’altro giallo usato nel Medioevo è stato il giallolino o antimoniato di piombo, meno pericoloso ma meno brillante.
L’uso di pigmenti costosi e dalle caratteristiche brillanti era voluto dai ricchi committenti della chiesa, nobiltà e della borghesia nascente che con queste opere volevano dimostrare che il potere aveva anche il senso artistico. E’ in questo stesso periodo che nella chiesa si afferma l’uso della porpora e di altri colori sgargianti nella colorazione delle vesti.

Il lapislazzuli e le lacche.

Questi due pigmenti non hanno origine alchemica. La grande richiesta di blu oltremare nel tardo Medioevo fece salire il prezzo del lapislazzuli fino a eguagliare quello dell’oro.
L’uso che Giotto fece di questo colore per la cappella degli Scrovegni a Padova si deve alla ricchezza di questa famiglia la cui attività era di tipo bancario, al punto che Dante colloca un esponente di questa famiglia nel girone degli usurai.
Il blu del lapislazzuli è dovuto a molecole di zolfo intruse nel reticolo cristallino di un minerale incolore (silicoalluminato di sodio). L’intrusione dello zolfo protetta dal reticolo cristallino ospite rende altamente stabile il pigmento, anche se lo zolfo è molto reattivo.
Le lacche erano già conosciute nel passato, ma poco diffuse a causa del loro costo.
La lacca è costituita da particelle incolori (allumina, gesso, biacca, polvere di marmo o gusci d’uovo tritati) rivestiti di un colore: tra queste,
lacca di robbia colorata con alizarina (C14H8O4) o porporina (C14H8C5),
lacca di Kermes o cremisi e di cocciniglia, colorate con acido carminico (C22H20O13)e kermesico (C16H10O8),
lacca indaco colorata con indigotina (C16H10N2O2)
la lacca porpora colorata con dibromoindigotina (C16H8Br2N2O2) di origine fenicia.
Alcuni di questi coloranti sono stati usati nel Medioevo per la colorazione dei tessuti.
La lavorazione delle lacche fu migliorata nel Rinascimento con l’uso di leganti migliori quali l’olio di lino che ne aumentarono la durata nel tempo.
L’indago veniva estratto da un vegetale l’Indigofera tinctoria, già usato in India e Cina per la colorazione di tessuti. Questo colorante era meno usato di altri blu a causa del suo veloce deperimento. Questo problema fu risolta dai Maya ( che scoprirono l’uso dell’Indigofera tinctoria autonomamente) facendo bollire una soluzione di indago in una sospensione di argilla (Poligorchite, alluminosilicato di magnesio). Dopo la completa evaporazione si otteneva un pigmento di colore azzurro indelebile, il blu Maya. Le particelle di colorante sono così inglobate nel reticolo dell’argilla rimanendo protette come nel caso del lapislazzuli.

I pigmenti in uso in Oriente.

Del Medioevo indiano si conoscono solo poche miniature, mentre in Cina la successione di numerose dinastie ha contribuito alla produzione artistica. Gran parte della pittura si eseguiva su seta con uso di tutti i pigmenti conosciuti in Europa. I soggetti pittorici, diversamente dall’Europa, erano scene di caccia, paesaggi e composizioni floreali. Alla pittura era sempre associata la calligrafia, essa stessa ritenuta arte.

SFUMATURE E CHIAROSCURI (1450 – 1750)

Al tempo di Giotto, prima metà del trecento, la popolazione europea viene ridotta di un terzo a causa di una epidemia. Dopo si ha una forte espansione demografica accompagnata dal rifiorire dei commerci e delle arti che portano ad un umanesimo nuovo.
Alle corti delle città stato italiane ( Firenze, Venezia, Napoli, Milano, Roma, Mantova) si fa a gara per reclutare i migliori artisti sulla piazza, si era instaurato un “mercato degli artisti” come quello attuale per i calciatori.
Iniziano poi ad acquisire importanza i paesi che si affacciano sull’Atlantico (Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia e Paesi Bassi) grazie allo sfruttamento delle terre oltreoceano e delle colonie in genere. Questa transizione è accompagnata dalla decadenza delle città stato italiane.
Con la fine del cinquecento il baricentro economico ed artistico si sposta dunque a Nord Ovest.

La pittura ad olio.

Nella metà del quattrocento si comincia a sostituire il tuorlo e albume d’uovo con l’olio (lino, papavero, noce) come mezzo disperdente dei pigmenti; si passa dunque dalla pittura a tempera a quella ad olio. Anche se questa tecnica era già nota a Vitruvio e Plinio il Vecchio, la diffusione viene attribuita al pittore fiammingo Jan van Eyck nato intorno al 1390.  A prescindere dall’attribuzione, in Italia già Piero della Francesca (Madonna della misericordia, Federico da Montefeltro) ed il Masaccio (Pala Colonna); adoperavano questa tecnica in contemporanea con la tempera.
Il declino della tempera fu molto graduale per cui per molto tempo le due tecniche convissero.
Solo a partire dalla seconda metà del quattrocento la tecnica dell’olio prese decisamente il sopravvento sulla tempera.
I vantaggi dell’olio sono noti, ottimo legante, fluido, resistente e indurisce con lentezza, questa caratteristica permette la stesura di più veli sovrapposti ottenendo trasparenze ed effetti di luce impensabili con la tempera. L’olio, inoltre, protegge i pigmenti dagli agenti ossidanti per cui mantengono più a lungo le loro caratteristiche cromatiche e di lucentezza. Anche la migliore separazione tra le particelle di pigmento che si ottiene con l’olio migliora la resa cromatica della stesura, senza il pericolo di reazioni non controllate; ciò permette anche la mescolanza di vari pigmenti per ottenere sfumature di colore fino ad allora impensabili. L’uso dell’olio migliora anche la durata delle lacche che essendo composte da elementi organici tendono a deperire velocemente.
La tecnica dell’olio ha comunque il difetto di non essere adatta alla stesura del colore su tavola (il quanto il legno assorbe l’olio) ed è per questo che con l’avvento di questa tecnica si iniziano ad adoperare nuovi supporti, le tele; queste essendo più facili da trasportare (arrotolate) hanno contribuito esse stesse alla diffusione  e commercio delle opere d’arte. Con le opere di Jan van Eyck si mantengono le vesti blu e rosse, ma sparisce l’uso della lamina d’oro.

I pigmenti rinascimentali.

Nel Rinascimento la tavolozza dei pittori di arricchisce di ben poco rispetto al Medioevo; questa era composta da biacca, giallo Napoli (antimoniato di piombo), orpimento, blu oltremare o lapislazzuli, lacca di robbia e di kermes, vermiglione, verdigris (acetato di rame), ocre rosse e gialle (ossidi di ferro variamente idrati) e nero (carbone da nerofumo). Le novità non sono nuove scoperte ma riscoperte grazie al nuovo impulso dei commerci che hanno nuovamente riportato in occidente conoscenze rimaste in ambiti reconditi delle civiltà mediterranee e orientali.
Fa eccezione lo smaltino, un pigmento blu ottenuto dalla macinazione di un vetro blu al cobalto che andava a sostituire i carissimi lapislazzuli e l’azzurrite. Lo smaltino, venne adoperato tantissimo dal Bellini e da altri pittori veneziani; questo è uno dei motivi per cui a Venezia si sviluppò l’arte vetraria che continua tutt’oggi.
Il Rinascimento ha portato alla scoperta di nuovi colori e alla nascita delle sfumature e dei chiaroscuri grazie all’insuperabile modulazione della luce permessa dalla tecnica ad olio.

Fra Italia ed Europa

Il quadro  “I coniugi Arnolfini” di van Eyck è un esempio di come l’olio permette la creazione delle trasparenze e dei chiaroscuri, ma è anche l’archetipo delle nuove rappresentazioni pittoriche, quelle apologetiche della nuova borghesia; un distacco completo dai vecchi temi religiosi.
In Italia l’inizio dell’uso sistematico della tecnica a olio parte dalla seconda metà del quattrocento, il suo principale sostenitore è Antonello da Messina seguito poi da Piero della Francesca, Giovanni Bellini e, in seguito, dalla maggioranza dei pittori rinascimentali. La transizione di Antonello da Messina non è soltanto tecnica, ma segue quella di van Eyck, le sue rappresentazioni sono a metà strada tra il sacro e il profano. Ne sono esempi,  ”L’Annunciata”  e  “Giovane uomo” dove è chiara la rappresentazione di personaggi profani della società borghese. In queste due opere Antonello usa lapislazzuli, azzurrite, lacca rossa di robbia giallo di stagno e piombo, nero di carbone, ocre gialle e rosse.

L’anomalia botticelliana.

Botticelli, pur dipingendo soggetti profani rimane legato alla tecnica della tempera magra, dove il legante è composto da tuorlo d’uovo con l’aggiunta la cola di pesce e gomma arabica. Come supporto adopera indifferentemente la tavola (la primavera) o la tela (Nascita di venere); come pigmenti adoperava, nero di carbone, biacca (drappeggi e velature), vermiglione, malachite, verdigris, azzurrite, ocre, queste ultime mischiate con la biacca per gli incarnati. La bravura del Botticelli risiede anche nel fatto che pur non adoperando la tecnica a olio riusciva ad ottenere velature e trasparenze che non hanno nulla da invidiare alla tecnica ad olio. I capelli di Venere sono ottenuti con una miscela di ocra e polvere d’oro.

Il chiaroscuro: un metodo per modulare il colore.

 Tra la fine del quattrocento e l’inizio del cinquecento lavora Leonardo da Vinci sperimentando nuove tecniche pittoriche, ma soprattutto portando l’arte dello sfumato a livelli straordinari. Per Leonardo il colore aveva un’importanza secondaria, dominano il nero e le ocre, ma sono i contorni sfumati a catturare tutta la sua attenzione, ne sono esempio i suo paesaggi in secondo piano che creano uno sfondo etereo.
Oltre ad essere un grande artista e scienziato, Leonardo era anche un politico raffinato. Nel suo tempo il pittore era considerato ne più ne meno un artigiano che doveva acquistare e preparare i pigmenti prima di eseguire un’opera. A Leonardo e ad altri artisti suoi contemporanei stava stretto l’attributo di artigiano quindi si adoperarono affinché la pittura assurgesse al livello di arte. Per questo motivo le loro opere erano un concentrato di conoscenze matematiche, simboliche e tecniche; diceva Leonardo “…Coloro che si dedicano alla pratica artistica senza scienza, sono come marinai che vanno in mare senza timone e bussola e che non possono mai sapere dove stanno andando…”.
Il colorismo della pittura di Leonardo si costruisce direttamente sulla tela o sulla tavola, nella sovrapposizione di strati successivi di materia pigmentaria. Se questo prodigio stilistico era conosciuto fino a oggi come teoria annotata sulle carte del maestro, una ricerca empirica ha permesso finalmente di mettere in luce la peculiarità dell’esecuzione pittorica leonardiana. In questo modo è direttamente nell’occhio dello spettatore che si compie la magia dell’amalgama dei colori.

Il colore plastico.

Contrariamente a Leonardo, Michelangelo adoperava i colori puri, poco diluiti con la biacca e i contorni non erano affatto sfumati; in questo modo le figure principali si distaccavano dagli sfondi ed assumevano un volume proprio. Michelangelo usava pochi colori tradizionali, giallo Napoli, lacca di robbia e lapislazzuli.
Così come Michelangelo anche Rosso Fiorentino sfuma poco i colori anche allo scopo di dare drammaticità alle sue rappresentazioni.

Luce e colore, l’impareggiabile scuola veneta.

I grandi pittori veneti che si sono alternati tra il quattrocento ed il settecento sono stati senza dubbio i più grandi valorizzatori dei colori della storia dell’arte, (Cima da Conegliano, Giorgione, Bellini, Tiziano, Tintoretto, Veronese, Canaletto e Tiepolo), probabilmente per le luci che la laguna veneta manifesta durante le stagioni. Altro motivo è senza dubbio Venezia stessa come centro di smistamento di merci provenienti da tutto il mondo mediterraneo e orientale e come capitale della lavorazione del vetro.
Nell’opera del Tiziano “Bacco e Arianna” si ha il campionario completo dei colori usati nel cinquecento: lapislazzuli, malachite e resinato di rame, Verdigris, cremisi, azzurrite, biacca, vermiglione, giallo Napoli, nero fumo, ocra, terra verde e realgar. In quest’opera si ha un’idea della luminosità data dalla tecnica ad olio e dalla ricchezza dei colori disponibili a Venezia.
Le tecniche di Tiziano sono poi acquisite dal Tintoretto e dal Veronese.
La pittura veneta è stato il momento pittorico longevo della storia dell’arte in Italia; il Canaletto ed il Tiepolo sono stati attivi fino alla seconda metà del settecento.

Colore e luce in Europa.

Nel seicento il baricentro economico culturale si sposta sulle sponde atlantiche, in quelle nazioni ricche grazie allo loro espansione nelle colonie d’oltreoceano. Da questa prima globalizzazione ne traggono vantaggio anche le tavolozze dei pittori.
La lacca di Kermes, derivata dalla cocciniglia, arriva in abbondanza dal Messico.
Il giallo indiano (sale di magnesio dell’acido euxantico) arriva dall’india; è un colore fluorescente, s’illumina in presenza di luce solare ed è stato usato abbondantemente da Vermeer.
La gommagutta, un pigmento giallo oro intenso ricavato da una pianta del Sud Est asiatico.
La Terra di Kassel o Bruno van Dyke si deve a un pigmento bruno nero ricavato dalla torba.
Va da se che anche i centri di produzione artistica si spostano verso le sponde dell’Atlantico, ecco allora fiorire la pittura spagnola e fiamminga. El Greco (formatosi alla scuola veneta di Tiziano e Tintoretto), Rubens e Vermeer ne sono esempi. Vermeer otteneva una luce particolare nei suoi dipinti in quanto sui pigmenti inorganici stendeva velature di lacca.
El Greco pensava che il colore fosse l'elemento più importante e allo stesso tempo meno governabile di un dipinto, e dichiarò che il colore aveva la supremazia rispetto all'immagine. Il pittore Pacheco del Rio che visita a El Greco nel 1611, scrisse che all'artista piacevano «grandi macchie di colori puri e non mescolati, come fossero immodesti segni della sua abilità».

La luce ed il chiaroscuro,: da Leonardo a Rembrandt.

 Leonardo ha insegnato che i pigmenti servono sia ad ottenere effetti di colore, ma anche a modulare l’intensità della luce. Quest’insegnamento fu raccolto ed espanso dal Caravaggio, le cui opere sembrano eseguite con pochi colori in tavolozza, mentre erano presenti tutti i pigmenti conosciuti in quegli anni. Il Caravaggio vede la sua tecnica proseguita da Velázquez e da Rembrandt. Tutti questi artisti avevano una grande capacità nel gestire i colori neri e bruni ottenuti con carboni, nerofumo e nero d’avorio e miscelati con terra d’ombra e ocre. Rembrandt, unico tra questi, ebbe l’opportunità d’adoperare altri pigmenti bruni, come la terra di Kassel e il bruno bitume, i quali essendo solubili in olio permettevano d’ottenere fantastiche velature.

Guardando il futuro.

Nel settecento nascerà la chimica moderna, così come la intendiamo oggi, e questa permetterà la sintesi d’intere classi di pigmenti. Questa potenzialità a disposizione degli artisti ha reso possibile una rivoluzione nella pittura, le opere s’illumineranno di luci mai viste ed impensabili nel passato.


VERSO L’IMPRESSIONISMO ED OLTRE (1750 – 1900).

Alla metà del settecento le tecniche messe a punto dagli artisti ed i materiali messi a disposizione dalla tecnologia hanno permesso una rappresentazione pittorica straordinaria.

La rivoluzione scientifica.

Fino alla metà del settecento ogni cosa era giustificata dalla teoria Aristotelica secondo cui tutto deriverebbe dai 4 elementi, terra, acqua, aria e fuoco. Già nel cinquecento questa teoria veniva messa in discussione da alcuni filosofi (Giordano Bruno, Paracelso, Copernico e Gallileo) invisi però dalla chiesa che invece sosteneva la teoria Aristotelica. Nel seicento l’abate francese Gassendi sosteneva che la teoria di Democrito riguardo l’atomismo ed il vuoto fossero l’unica verità da accettare e che nelle teorie scientifiche la sperimentazione aveva una importanza fondamentale.
Nel 1661 Robert Boyle pubblicò il primo libro di chimica nel quale spiegò l’importanza dell’osservazione per il comportamento dei gas.
Le nuove linee guida per le scienze erano ormai state stese, ma le conoscenze alchemiche continuarono a sopravvivere in parallelo con le nuove metodiche scientifiche.
Newton, che era fisico e alchimista, fece da ponte tra le due realtà in occasione dello studio del comportamento delle particelle nel vuoto con la formulazione della teoria sull’interazione a distanza tra le particelle.
Da qui in poi lo sviluppo delle scienze, e della chimica in particolare, fu esponenziale; si scoprono decine di elementi presenti in natura, si sintetizzano nuovi composti inorganici e organici.

La rivoluzione industriale e la nascita delle metropoli.

Le nuove scoperte portano, a partire dal 1750, la popolazione mondiale da 700.000.000 a 1.700.000.000 di abitanti nel l’arco di 150 anni. In questo periodo le principali città europee sono Parigi e Londra. Queste grandi metropoli sono oltre che grandi centri economici, poli di aggregazione per le correnti artistiche nascenti, realismo, impressionismo, divisionismo ecc..
L’evoluzione artistica ha una crescita rapidità, quasi nevrotica, così come allo sviluppo scientifico, alla crescita della popolazione e alla ricchezza pro-capite.

La tavolozza cambia faccia.

Questa esplosione scientifico-chimica ed artistica porta alla scoperta e alla sintesi di nuovi pigmenti. I colori diventano più intensi e luminosi dei precedenti, l’ossido di zinco rimpiazza definitivamente la biacca, ma da li a poco sarà affiancato dal biossido di titanio.
Nel 1840 appaiono sul mercato i colori confezionati in tubetti di stagno con i colori già pronti all’uso, cioè già miscelati con l’olio di lino. Se primo ogni pittore si doveva preparare i colori prima di dipingere, ora, con questi tubetti c’era meno da lavorare ed erano così pratici che si poteva portarli con sé per dipingere all’aria aperta. Prezzi bassi e grande praticità portano alla diffusione della pittura a olio e a quella materica caratterizzata da spesse pennellate di colore.

Pittura fra scienza e salute.

Gli artisti erano così stregati dai nuovi colori che non pensavano che gli stessi potevano essere tossici. Il diabete di Cezanne, con ogni probabilità è dovuto al verde brillante (acetoarsenito di rame) che adoperava. Lo stesso colore e il giallo (cromato di piombo) adoperato nei girasoli devono aver aggravato i problemi neurologici di Van Gogh. Anche la cecità di Monet sembra aver origine da questi colori, così come l’artrite reumatoide di Renoir e la malattia della pelle di Klee. I nuovi pigmenti erano si fantastici, ma contenevano metalli pesanti molto tossici. Soltanto nel “900” fu riconosciuta la tossicità di questi colori basati su pigmenti ricavati dai metalli (mercurio, arsenico, piombo, cadmio e cromo).
Nel 1750 inizia quindi un periodo nel quale si incrementa la quantità di pigmenti inorganici messi a disposizione degli artisti e termina alla fine del 1800 per due motivi precisi. A partire da questa data infatti inizia la produzione di colori organici, ottenuti attraverso sintesi che vanno ad affiancarsi e, in alcuni casi, a sostituirsi, in quei casi di tossicità. Il secondo motivo è legato all’invenzione della fotografia che a partire dall’inizio del “900” diventa il mezzo per la riproduzione fedele della realtà. A questo punto l’arte non ha più il compito di rappresentare la realtà e si può quindi avventurare verso nuove forme espressive che alla fine porteranno all’informale o all’astratto con uso di colori e altri materiali.  

I nuovi pigmenti e la luce all’inizio dell’Ottocento.

Alcuni artisti del fine “700” come il Goya, continuarono ad adoperare i vecchi pigmenti lasciandosi tentare solo da alcuni nuovi colori, come il blu cobalto ed il giallo di cromo (tra l’altro si pensa che l’uso di questi due colori portarono alla sordità lo stesso artista).
I paesaggisti inglesi, al contrario, arricchirono subito le loro tavolozze dei nuovi colori messi a disposizione dalla tecnologia. Ne è un esempio John Constable che aveva arricchito i suoi dipinti con il verde smeraldo, giallo cromo blu cobalto e blu di Prussia; Questi nuovi colori gli dettero la possibilità di rendere una luce nuova ai paesaggi e di definire meglio la sua pittura realista. Erede di Constable fu M.W. Turner che iniziò ad adoperare l’arancio cromo ed il cromato di bario giallo che gli dettero la fama di “pittore della luce” e per alcuni fu il precursore dell’impressionismo

Verso l’impressionismo.

A metà Ottocento Camille Pissarro rappresenta paesaggi rurali con una tavolozza ancora più ricca di verdi e gialli. E’ già da un po’ di tempo che si parla di paesaggi come soggetti pittorici; infatti a partire dal 1750 e per 200 anni il paesaggio è il soggetto più rappresentato dagli artisti. Anche in Pizarro la luce diventa soggetto fondamentale delle sue opere.
E’ da queste opere che si comincia a parlare d’impressionismo e lo si fa in Europa occidentale. Non sono comunque da dimenticare i primi vagiti in questo senso nella Russia di metà Ottocento con il pittore Isaak Levitan che con la forza dei suoi paesaggi e confrontabile con le opere letterarie e musicali dei grandi romanzieri e musicisti russi.
In Italia Fattori e Signorini danno vita al movimento dei macchiaioli, avvicinandosi alle tematiche impressioniste. Essi adoperano colori caldi come i gialli e gli arancioni; questa strada sarà seguita anche da Modigliani allievo di Fattori.

L’Impressionismo

Impressionismo: corrente che ha mirato a rappresentare le infinite sensazioni generate nell’animo umano dalla natura, con la luminosità e varietà dei colori.
L’impressionismo è il titolo di una nuova estetica basata sulla rappresentazione della luce attraverso i colori al fine di generare impressioni ed emozioni. I due maggiori esponenti di questa nuova forma artistica sono Edouard Manet e Claude Monet, quest’ultimo considerato in maggiore interprete di questa nuova estetica. Gli impressionisti sfruttano completamente le potenzialità dei nuovi pigmenti; per rappresentare la luce solare che incide su di un giardino dopo che ha attraversato il fogliame degli alberi, venivano usate tutte le tonalità del verde. Tutto ciò era impossibile prima della produzione dei pigmenti attraverso la sintesi. Lo scopo non era rappresentare pedissequamente il paesaggio (questo scopo era ormai soddisfatto dalla nascente fotografia), ma trasmettere le sensazioni ed emozioni generate dalla disposizione delle luci sulla tela. Se si confrontano le vedute di Venezia del Canaletto Turner e Monet si ha la percezione della differente interpretazione del soggetto.

La pittura e la fotografia.

Contemporaneamente all’impressionismo si sviluppava la tecnica fotografica in bianco e nero, anch’essa grazie alle nuove scoperte della chimica, (nuove emulsioni fotosensibili). A metà Ottocento erano già sorte aziende importanti come, Zaiss, Agfa, Kodak, e Leica. Verso la fine dell’Ottocento iniziava a essere riconosciuto alla fotografia l’aspetto artistico, ed il fotografo Nadar (Gaspard Felix Tournachon) ebbe una grande influenza (ed era amico) sugli impressionisti a tal punto che Monet ebbe in prestito il suo studio fotografico per una mostra personale. Nei quadri di Renoir si ha la rappresentazione della vita quotidiana, la sensazione è quella di osservare una fotografia, ma al contrario di quest’ultima le rappresentazioni sono impressioniste, ricche di tutti quei pigmenti a disposizione che caratterizzano gli impressionisti.

Il Post-impressionismo.

Il Post-impressionismo vede un accentuarsi dei colori vivi, saturi, non miscelati con il bianco; ne sono esempio i dipinti di Toulouse Lautrec e Van Gogh (vedi i girasoli). In questo periodo inizia a essere abbandonata la sfumatura, modalità poi messa in pratica anche dagli espressionisti e dagli astrattisti e nelle immagini pubblicitarie del “900” che risentono dell’influenza di Lautrec.
La rappresentazione del paesaggio si evolve con Paul Cezanne attraverso i suoi verdi luminosi dell’acetoarsenico di rame che poi comprometterà seriamente la sua salute.
Altro artista che ha fatto del colore il fulcro della sua opera è Paul Gauguin.
Da quanto si è detto fino ad ora si evince che le opere impressioniste e post impressioniste del secondo Ottocento non sarebbero potete esistere senza i nuovi colori di sintesi che hanno permesso di sviluppare questi stili luminosi e materici.
L’evoluzione espressiva del colore continuerà la sua strada con gli artisti del “900”, dai cubisti agli espressionisti fino agli informali; alcuni artisti di quest’ultima corrente utilizzeranno sorgenti luminose al posto dei pigmenti.

IL NOVECENTO

Lo sviluppo tecnologico e della chimica di metà Settecento è nulla in confronto a quanto è avvenuto nel Novecento, vediamo alcuni elementi.

Ø  sviluppo di nuovi dei pigmenti organici; alla fine del secolo i pigmenti a disposizione degli artisti, inorganici ed organici, sono circa 600, compresi i fluorescenti.
Ø  1920 fanno la loro comparsa i colori acrilici (Mexico, Diego Rivera ed altri), caratterizzati da un legante polimerico di sintesi e diluibili in acqua. Queste caratteristiche permettono una essicazione rapida con la formazione di una pellicola protettiva della superficie colorata. Sono chiari i vantaggi per i pittori moderni attanagliati dalla volontà di eseguire opere in breve tempo e dallo stress della vita moderna.
Ø  Iniziano a prodursi vernici e plastiche trasparenti, sostanze modellabili e luci monocromatiche, tutti elementi che permettono di ottenere effetti tridimensionali anche se applicati su tela. Se ne avvalgono movimenti come l’Arte visuale, Spazialismo, e il Neo-espressionismo.
Ø  La fotografia si sviluppa esplorando finalmente i colori fino ad arrivare alle immagini digitali. La fusione tra fotografia ed pittura avviene con la Pop art.
Ø  Si sviluppa la cinematografia e il movimento artistico che sfrutta questo mezzo, la Performance art.
Ø  Con l’invenzione del computer nasce anche l’Arte digitale.

L’arte alla portata della gente comune.

Se prima del “900” i quadri adornavano le pareti di chiese, edifici pubblici e case dell’aristocrazia, con questo secolo iniziano a entrare nelle case della media e piccola borghesia. Iniziano poi a moltiplicarsi le raccolte museali dove tutta la popolazione può usufruire della visione delle opere d’arte. Se nel Rinascimento il mercato dell’arte che era ad appannaggio dei soli mecenati, alla fine del “900” la compravendita di opere d’arte acquisisce una dimensione planetaria.
Le opere d’arte entrano ormai nelle case di tutti i cittadini, grazie alle opere editoriali dedicate, alle trasmissioni televisive e alla cinematografia.

La scoperta di sé.

La sostituzione della pittura con la fotografia e cinematografia nella rappresentazione della realtà ha lasciato aperto al mondo della pittura una grande autostrada da percorrere, la cui presenza era stata indicata anche da Sigmund Freud con lo studio della psicoanalisi, la rappresentazione dell’Io, della parte interiore dell’artista, della sua soggettività. In questo modo nasce l’arte informale. Le scoperte tecnologiche ed il clima intellettuale ed artistico dei primo del “900” sono quindi il viatico per la prossima evoluzione della pittura quella astratta.

I pigmenti del Novecento.

Vediamo come la chimica organica ha regalato agli artisti nuovi pigmenti di sintesi; ecco alcune famiglie:

-       Ftalocianine, questi prodotti di sintesi forniscono colori brillanti e stabili soprattutto nel campo dei verdi (rame).
-       Cninacridoni, danno colori compresi tra il rosso e il magenta; questi pigmenti sono stati adoperati, inizialmente, su scala industriale per la verniciatura di automobili.
-       Azopigmenti, forniscono colori compresi tra il giallo ed il rosso ed hanno sostituito quelli inorganici basati su solfuro di cadmio e mercurio.
-       Dichetopiroli, danno colori compresi tra l’arancio ed il rosso.
-       Antrochinoni, fornisce l’alizarina che ha sostituito il rosso della lacca di robbia.

Sono sintesi basate su legami doppi (C=C, C=O, e N=N), come la struttura è anche quella del carotene, colorante naturale della carota.
I colori dei fiori sono naturalmente tutti di origine organica, ma la loro deperibilità con l’ossigeno e con la luce non rende le loro formule utilizzabili per la produzione di pigmenti.
Il compito dei chimici è quindi quello di creare nuovi pigmenti, ma che questi siano stabili nel tempo e alle varie condizioni ambientali.

Un secolo complesso.

Il Novecento ha visto due conflitti mondiali combattuti e una guerra fredda. La velocità degli eventi che queste trasformazioni hanno portato è stata incredibile. L’arte non si è sottratta a questa evoluzione nevrotica; per avere un’idea basta fare un accenno all’elenco dei movimenti artistici che si sono alternate nella prima metà del “900” frapponendosi tra il Realismo e l’Astrattismo.
Art noveau, Fauvismo, Cubismo, Futurismo, Futurismo russo, Espressionismo, Die Bruke, Der Blaue Reiter, Scuola di Parigi, Pre surrealismo, Cubismo orfico, Vorticismo, Pittura metafisica, Dadaismo, Ritorno all’ordine, Realismo magico, Secondo futurismo, Nuova oggettività, Surrealismo, Cubismo sintetico, Costruttivismo, Suprematismo, De Stijl, Bauhaus, Modernismo americano, Precisionismo, Muralismo Realismo socialista….

Parigi nel primo quarto di secolo.

All’inizio del “900” Parigi era la seconda città d’Europa dopo Londra, ed era il luogo di coagulo di tutti gli artisti e correnti che avrebbero scritto la storia dell’arte di questo periodo. Dopo l’impressionismo e il Post Impressionismo ecco l’opera di Henri Matisse, pittore di grande talento e caratterizzato da campiture totalizzanti realizzate con pigmenti inorganici, come nel caso della “danza” dove i colori sono tre, verde, arancio e blu, o nella “stanza rossa” dove dominano il verde ed il rosso. Matisse adopera colori saturi senza sfumature che generano situazioni fuori dal reale, decisamente lontano dai giochi di luce degli impressionisti. Oltre ad enfatizzare il colore, appiattisce le forme e controlla le linee e l'espressione domina i dettagli.
La tecnica di Matisse viene continuata dal giovane Picasso nel suo “periodo blu”, con l’uso del blu di Prussia. Il periodo blu è caratterizzato da una pittura monocromatica, giocata sui colori freddi, dove i soggetti umani rappresentati, appartenenti alla categoria degli emarginati, degli sfruttati e dei poveri, sembrano sospesi in un'atmosfera malinconica che simboleggia l'esigenza d’interiorizzazione: l'umanità rappresentata è quella deprimente di creature vinte e sole che appaiono oppresse e senza speranza.  
Modigliani che usa colori che vanno dal rosso all’ocra passando per l’arancio e il giallo; i toni si accendono, ma la materia rimane vellutata. Nel 1017 la sua pittura apparve diversa da tutto ciò che si faceva allora, si aveva un "ritorno all'ordine". C’era qualcosa di comune cn i due pittori russi Pascin e Soutine, anche per l'accensione tonale che, insieme alla ricerca di una materia sempre più vellutata, caratterizza l'opera degli ultimi anni del pittore.
Chagall, crea dipinti ricchi di riferimenti della sua infanzia, anche se spesso preferisce tralasciare i periodi più difficili. Le sue tele riescono a comunicare felicità e ottimismo tramite la scelta di colori vivaci e brillanti. Il mondo di Chagall è colorato, come se fosse visto attraverso la vetrata di una chiesa. Nella sua fase matura, fa sì che il colore superi i contorni dei corpi in modo che possa espandendosi sulla tela diventando così elemento libero e indipendente dalla forma.
Il blu di Prussia di Picasso ha diversi nomi chimici, tra cui: ferrocianuro ferrico, ferricianuro ferroso, esacianoferrato(II) di ferro(III); è causato dal trasferimento di elettroni da un atomo di ferro ad un altro all'interno della molecola. Viene assorbita luce a 680 nm (rosso), e questo provoca il trasferimento di un elettrone da un atomo di Fe(II) a uno vicino di Fe(III)

L’Espressionismo tedesco.

Nei primi anni del “900” la Germania è in una fase economica favorevole ed è in questa situazione a Dresda e Monaco nascono dei movimenti che si riconducono all’“Espressionismo tedesco”. A Dresda si forma il movimento “Il ponte” il cui esponente più noto è Emil Nolde; egli s’interessò all’arte primitiva per le qualità ritmiche e decorative, favorendo la comparsa di elementi esotici nella sua pittura e mettendo in risalto le forze primordiali della natura e dell’uomo. 
Nelle opere dell’ultimo periodo la figura umana continua ad essere gradualmente ma violentemente deformata attraverso una stesura del colore per grandi pennellate.
A Monaco nasce un movimento artistico denominato Der Blaue Reiter , il cavaliere azzurro. Il gruppo, che non aveva un manifesto esplicito, era centrato attorno a Kandinskij e Marc. Il nome, Der Blaue Reiter, ebbe origine dalla passione di Kandinskij per il colore blu e dall'amore di Marc per i cavalli. Di questo movimento fanno parte il russo Kandiskij, ed i tedeschi Franz Marc e August Macke ; questi ultimi morti durante la prima guerra mondiale. Franz Marc vede nell'animale una metafora di purezza e innocenza; usa isolare la creatura in un contesto rurale. Il suo obiettivo è l'"animalizzazione dell'arte". Egli cerca uno stile buono, puro e chiaro in cui almeno una parte di ciò che ha da dire possa emergere completamente. Marc dà grande importanza al colore: “il colore è qualcosa di e con la luce” vale a dire l'illuminazione, non ha niente a che fare. Per lui il blu è il principio maschile e spirituale il giallo è il principio femminile, gentile, allegro e sensuale, il rosso, brutale e pesante, deve essere combattuto e superato dagli altri due.
Di questo movimento fa parte anche Kirchner. Kirchner lascia il gruppo e inizia il  periodo più caratteristico della sua produzione con scene di strada,cabaret, ritratti dalla pennellata nervosa e sommaria e dalla caratterizzazione decisa e marcata; Il suo stile diviene sempre più drammatico, con deformazioni violente e ritmi convulsi. In quest’evoluzione è rintracciabile il contatto con nuovi movimenti artistici, tra cui il cubismo e l'art nouveau.
Oltre ai paesaggi e ai ritratti dipinge immagini urbane, con ampie stesure di colori vigorosi che assumono valore autonomo, al pari delle forme e dei volumi, e che ricordano Gauguin e i selvaggi colpi di pennello di Van Gogh. In particolare, nelle immagini urbane le curve e le linee assumono forme irregolari, per sottolineare il contrasto tra la campagna e la grande città, la cui frenetica vitalità lo avvicinò ad interessi psicologici, a temi sessuali e alla polemica sociale.
Durante il periodo nazista questi artisti furono dimenticati, ma vennero riscoperti dopo la seconda guerra mondiale.
L’Espressionismo tedesco è caratterizzato da un uso molto calcato del colore saturo proveniente da pigmenti sintetici; sono questi artisti che esplorano intensamente, per la prima volta, questi nuovi prodotti di sintesi.
Nello stesso periodo Gustav Klimt, del movimento “Secessione Viennese” dipinge “Il capello nero”, Kirchner “Ritratto di Gerda”, il francese Derain “Donna in camicia”, tutti questi ritratti ricordano le opere di Lautrec, ma a differenza di quest’ultimo, i primi hanno adoperato pigmenti di sintesi senza diluizione, che hanno reso le loro opere brillanti e sorprendenti.

La pittura astratta: un’ulteriore espansione del colore.

Dopo aver fatto parte del movimento Der Blaue Reiter, Kandinskij inizia la produzione di opere astratte; sarà lui l’inventore dell’Astrattismo. Nelle sue opere, espone le personali teorie sull'uso del colore, intravedendo un nesso strettissimo tra opera d'arte e dimensione spirituale. Il colore può avere due possibili effetti sullo spettatore: un "effetto fisico", superficiale e basato su sensazioni momentanee, determinato dalla registrazione da parte della retina di un colore piuttosto che di un altro; un "effetto psichico" dovuto alla vibrazione spirituale (prodotta dalla forza psichica dell'uomo) attraverso cui il colore raggiunge l'anima. Esso può essere diretto o verificarsi per associazione con gli altri sensi. L'effetto psichico del colore è determinato dalle sue qualità sensibili: il colore ha un odore, un sapore, un suono. Perciò il rosso, ad esempio, risveglia in noi l'emozione del dolore, non per un'associazione d’idee (rosso-sangue-dolore), ma per le sue proprie caratteristiche, per il suo "suono interiore". Kandinskij utilizza una metafora musicale per spiegare quest'effetto: il colore è il tasto, l'occhio è il martelletto, l'anima è un pianoforte con molte corde. Il colore può essere caldo o freddo, chiaro o scuro. Questi quattro "suoni" principali possono essere combinati tra loro: caldo-chiaro, caldo-scuro, freddo-chiaro, freddo-scuro. Il punto di riferimento per i colori caldi è il giallo, quello dei colori freddi è l'azzurro. Il suo scopo era creare opere espressive anche se non rappresentavano cose realistiche, alla stessa stregua della musica. Era sinceramente convinto che tra note e colori ci fosse una relazione precisa e stretta, fatta di regole e leggi comuni; regole comuni tra note e colori (è tra creatività pittorica e musicale) e tra colori e pigmenti (è tra creatività pittorica e scientifica).
Ecco allora la relazione tra tavolozza, tastiera e tavola di Mendeleev .
A questo punto si evince che se il manifestarsi della creatività in un artista sia frutto di una profonda emozione che coinvolge tutta la sua personalità e che si trasmette a chi osserva l’opera, ma questa capacità comunicativa si deve anche alle scoperte ed invenzioni degli scienziati. Questa convergenza tra scienziati e artisti va ricercata nell’architettura del cervello e nella sua neurochimica.
Molte opere di Kandinskij sono state ispirate dall’ascolto di opere di Schonberg, il suo astrattismo è caratterizzato da colori brillanti.
Contemporanei di Kandinskij furono l’italiano Balla attivo negli anni ’20. Il suo lavoro è caratterizzato da una fantasiosa stilizzazione di motivi naturalistici, da un cromatismo di volta in volta intenso e violento, sfumato e iridescente, in consonanza con il diffuso "stile 1925", come dimostrano svariate prove nella decorazione e nelle arti applicate. A Balla fa eco il russo Malevic pittore Suprematista dell’Avanguardia russa, entrambi concentrati sull’astrattismo geometrico; la loro opera sarà poi proseguita dall’olandese Piet Mondrian « Costruisco combinazioni di linee e di colori su una superficie piatta, in modo di esprimere una bellezza generale con una somma coscienza. La Natura (o ciò che ne vedo) m’ispira, mi mette, come ogni altro pittore, in uno stato emozionale che mi provoca un'urgenza di fare qualcosa, ma voglio arrivare più vicino possibile alla verità e astrarre ogni cosa da essa, fino a che non raggiungo le fondamenta (anche se solo le fondamenta esteriori!) delle cose...
Credo sia possibile che, attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da un'alta intuizione, e portate all'armonia e al ritmo, queste forme basilari di bellezza, aiutate se necessario da altre linee o curve, possano divenire un'opera d'arte, così forte quanto vera. » e dallo svizzero Paul Klee: “….il colore si è impadronito di me, io e il colore siamo la stessa cosa….. l’arte non riproduce ciò che è visibile, piuttosto rende visibile…). Klee intende l'arte non come semplice rappresentazione della realtà (come era stato per i realisti o naturalisti fiamminghi), bensì come indagine che svela i meccanismi più profondi e nascosti della natura.
Qualche anno più tardi è lo spagnolo e surrealista Mirò che dipingerà con pochi colori saturi dei quali sfrutta tutte le loro sfumature, quelle necessarie alla rappresentazione e quelle per eccitare l’immaginazione. Miró fu uno dei più radicali teorici del surrealismo, al punto che André Breton, fondatore di questa corrente artistica, lo descrisse come “il più surrealista di noi tutti”. Tornato nella casa di famiglia, Miró sviluppò uno stile surrealista sempre più marcato; in numerosi scritti e interviste espresse il suo disprezzo per la pittura convenzionale e il desiderio di “ucciderla”, “assassinarla” o "stuprarla" per giungere a nuovi mezzi di espressione

Cubismo, Surrealismo e oltre: figure umane e paesaggi.

Nel primo Novecento, oltre all’Espressionismo nascono altri movimenti artistici, tra questi il cubismo e il surrealismo; scopo di questi ultimi era quello di rappresentare i soggetti pittorici in modo frammentario e con elementi riconoscibili. In questi movimenti l’uso del colore non ha caratteristica propria, ma attinge dai movimenti precedenti, impressionisti, espressionisti ed altri. Intorno agli anni “50” il russo De Stael, di origini aristocratiche russe, produceva paesaggi astratti pur riconoscibili. La sua esistenza si concluse con il suicidio ad Antibes dopo aver trascorso una vita avventurosa (Braque scrisse di lui….la pittura è come l’amore, schietta e possente come quella di Stael).

Il collage.

Il collage è stato inventato nella prima metà del “900” e si può descrivere come miscuglio di materiali vari incollati su di un supporto rigido. Con il collage i pigmenti perdono la loro centralità ad appannaggio dei materiali e delle forme costituenti lo stesso collage.
Pablo Picasso, un vulcano sia per la produzione che per l’innovazione, fu uno dei primi a sfruttare questa tecnica; dopo di esso furono Braque, Picabia, Hausmann ed altri.

Dopo il 1950

Dopo il 1950 alla tela piatta si affiancano altre modalità espressive, fotografia, architettura, scultura.. I materiali si sono espansi in modo esponenziali così come i pigmenti che pur mantenendo nomi che evocano un origine inorganica sono ormai quasi tutti di origine organica di sintesi; la tecnologia mette a disposizione degli artisti infiniti mezzi espressivi. Alla fine del secolo, appare anche la Digital Art o arte elettronica, eseguita tramite computer.
Abbiamo iniziato parlando dell’arte Paleolitica basata su pochi pigmenti per arrivare a quella elettronica basata sui bit e su milioni di colori; in entrambi i casi il mezzo a disposizione degli artisti è il colore.

L’astrattismo non uccide il realismo.

Tra il figurato e l’astrattismo esiste la via intermedia percorsa per esempio da Picasso, Chagall Bacon, dove la realtà è rappresentata in modo innovativo, in armonia con il tempo artistico.
Distorsione, frammentazione, isolamento dell'immagine sono i mezzi pittorici di Bacon. Questo modo crea presenze angosciose, aggressive e violente. Sono evidenti le affinità di Bacon con il
nichilismo, esistenzialismo e la psicoanalisi.
Nella seconda metà de “900” il figurativo ha continuato ad esistere grazie all’opera del sud americano Diego Rivera, alla Pop Art, all’arte giapponese e africana (che tempo addietro aveva influenzato Picasso e Modigliani).

Addio tavolozza e pennello.

Anni “50” Jakson Pollock appartenente al movimento Espressionista astratto americano, inventa l’Action Paint. Non più pennelli e cavalletti, ma tele posate a terra, vernici automobilistiche versate direttamente dal barattolo o fatte gocciolare (drip paint) ho spruzzate; tutto ciò ha rivoluzionato il modo di fare pittura. Pollock diceva ”…mi allontano sempre più dagli strumenti tradizionali del pittore, come il cavalletto, la tavolozza i pennelli e così via. Preferisco usare pittura liquida che lascio sgocciolare, mischiata a sabbia, vetro macinato ed altri materiali…”.
« Quando sono "dentro" i miei quadri, non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di "presa di coscienza" mi rendo conto di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovinare l'immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. È solo quando mi capita di perdere il contatto con il dipinto che il risultato è confuso e scadente. Altrimenti c'è una pura armonia, un semplice scambio di dare ed avere e il quadro riesce bene. »
Avevamo già visto che il collage era una tecnica che si allontanava dalla pittura tradizionale, ma le tecniche portate da Pollock sconvolgono completamente la pittura tradizionale. I media americani e non hanno fatto sì, attraverso immagini e filmati, che Pollock diventasse una vera e propria star dell’arte, creando un fenomeno popolare fino ad allora sconosciuto.

Verso il limite del colorismo.

I pigmenti industriali trovano un picco di gradimento intorno agli anni sessanta. Le ultime opere di Mirò e quelle di, Mark Rothko, Hans Hofmann, Barnett Newman, e Yves Klein ne sono esempio.
Rothko usa i pigmenti più splendenti per dipingere macchie di colore sfrangiate che avvolgono il fruitore, in tele di grandi dimensioni. Klein s’innamora del blu a tal punto che, aiutato dai chimici di una industria di colori (Rhodia), ne inventa (legante particolare, il rhodopas, un copolimero dello stirene con un’estensione dell’acido acrilico) e brevetta uno; diceva: ”..ritengo che in futuro si dipingeranno quadri di un solo colore..”. Klein mirava a far provare al pubblico la sensazione di far percepire e capire un'idea astratta.
Queste parole sono state profetiche in quanto a breve nasceranno opere eseguite con neon monocromatici appartenenti al movimento Visual Art.
Come si diceva in precedenza l’astrattismo geometrico fu continuato da Mondrian al quali si sono aggiunti Hofmann, Kennet Nolan e Richard Anuszkiewicz, inventore della Optical art. Quest’ultimo studiava gli effetti della giustapposizione dei colori complementari saturi rispetto all’intensità visiva al variare delle condizioni di luce.
Frank Stella, americano e facente parte della corrente minimalista abbandona la tela classica per superfici volumetriche dove riporta tutti i pigmenti conosciuti. I suoi lavori sono estremamente essenziali, basati, come ha dichiarato lui stesso, «sul fatto che in essi esiste solo ciò che si può vedere», quindi soprattutto impersonali e autoreferenziali. I sentimenti e il carattere dell'artista non devono assolutamente entrare a far parte del processo creativo e tanto meno trasparire dall'opera-oggetto finito. L'opera si pone come perfetto esempio di autoreferenzialismo in arte, cioè vuole significare soltanto sé stessa ed è scarica da qualsiasi connotazione emozionale o storica.
Stella si è rivolto a una ricerca rigorosamente geometrica , ha poi elaborato tele sagomate (shaped canvas) creando complessi giochi cromatici.  Recuperando anche la gestualità del dipingere, S. è giunto, con inedita libertà espressiva, a complesse strutture tridimensionali, spesso di formato monumentale, che utilizzano materiali eterogenei come feltro, legno, alluminio, elementi di recupero, vernici metalliche, fluorescenti, ecc. Questa tecnica tra scultura e pittura rientra nella cosiddetta Arte Visuale o Fusion Art.

La luce con o senza pigmenti.

James Turrell, americano, fonda la corrente Light and Space Movement, nelle sue opere non ci sono pigmenti, ma luci di vario colore che, proiettate su di una superficie danno l’impressione di volumi.
La tecnica aveva già messo a disposizione di Lucio Fontana dei pigmenti fluorescenti alla luce di Wood, in seguito usati dal giapponese Hiroschi Senju. Lucio Fontana fu precursore anche per l’uso di tubi fluorescenti.

La Pop Art.

I motivi pittorici della Pop Art sono i prodotti e personaggi di grande successo in America, successo ottenuto attraverso la pubblicità nei mass media. La popolarità di questi soggetti ha fatto si che la Pop Art si diffondesse in maniera capillare. Il suo rappresentate più noto he Handy Warhol che ha prodotto l’opera probabilmente più famosa di tutto il “900”, Marilyn Monroe. I suoi soggetti sono anche i loghi di grandi marchi commerciali o immagini d'impatto come incidenti stradali o sedie elettriche. Con la Pop Art si ritorna al realismo ed è il ponte che congiunge la fotografia con la pittura la Fusion Art. Anche Warhol considera pennello e tavolozza mezzi ormai superati adoperando la tecnica della serigrafia che permette di riportare immagini di ogni tipo su qualunque superficie attraverso l’uso di un tessuto. La Tecnica serigrafica permette di ottenere delle riproduzioni di una stessa immagine. Serigrafia: da latino "seri" (seta) e dal greco "graphein” (scrivere); stampa artistica tramite tessuti. Secondo Warhol, l'arte doveva essere "consumata" come un qualsiasi altro prodotto commerciale.
La Pop Art avrà un seguito nella Street art o graffitismo, opere compiute con bombolette spray.
Questo tipo di arte discende direttamente dalla Pop Art e dal Graffitismo, ponendosi però in un nuovo panorama a cavallo tra comunità sociale e mondo dell'arte, verso chi più propriamente artista propone i suoi lavori o chi, diversamente, utilizza la strada come luogo ribalta e vettore comunicativo.

Nuove combinazioni di materiali.

Il già menzionato Fontana eseguiva i suoi tagli non solo su tele (superò la distinzione tradizionale tra pittura e scultura), ma anche su lastre di rame, Gianni Colombo adoperava mattoni di polistirolo in una struttura di legno, Burri incollava i suoi sacchi di iuta e bruciava i suoi fogli di plastica. Nel 1949 Alberto Burri realizza SZ1, il primo sacco stampato. Per anni i sacchi sono giudicati a dir poco scandalosi. Non il caso, ma un’intenzione lucidissima guida Burri, che individua nell’apparenza una qualità disgiunta dalla sostanza. Il sacco, tela unta, incatramata e lacera, è assenza di luce e colore. Non è un attacco alla pittura, ma la sostituzione dei materiali della pittura. La materia del sacco è qualità pittorica e cromatica di per sé stessa, senza velature, senza vernici, trasformata solo dai segni del tempo. Burri non nega il colore usando la materia. Usa notazioni minime di colore che non sembrano colore, sono colori negativi, ai margini della vita come i suoi stracci. I sacchi non vogliono e non devono rappresentare nulla.    Il tedesco Anselm Kiefer adoperava acciaio piombo e oro. Nei quadri di Kiefer non appaiono quasi mai figure umane, egli, infatti, predilige dipingere i luoghi, i paesaggi, gli ambienti dove le tragedie della storia si sono consumate. Gli esseri umani paiono essere fagocitati dal vortice buio del male che hanno fatto a se stessi e al loro prossimo. Dal 1974 ha eseguito grandi tele, ottenute sovrapponendo spessi strati di colore e lacca. Dalla seconda metà degli anni Settanta ha trattato, con un violento linguaggio di tipo materico-gestuale, tematiche paesaggistiche, vicine all'astrazione, spesso unite a parole o frasi dipinte, utilizzando il colore accanto a materiali diversi ed eterogenei, su supporti di diverso tipo come tele, lastre di piombo, carta stampata. Ormai l’arte si serve oltre che dei pigmenti anche tutti i materiali che la tecnologia mette a disposizione e questa sarà la base anche per quel movimento definito Arte Povera.

La Land Art

Un’arte oltre la pittura e la scultura. Sono opere che appaiono a partire dalla metà degli anni 60 in America attuate da artisti delusi delle tecniche artistiche “normali” ed amanti della natura. In questo modo creano opere antropiche in ambienti naturali isolati, come deserti e lagune.

L’arte digitale.

L’arte digitale è eseguita con un computer per mezzo di un software grafico. I colori digitali derivano dalla miscela di tre colori fondamentali, rosso, verde e blu. I colori sono dati da led, quindi da luce emessa ed è per questo motivo che la loro luminosità è nettamente superiore a quella ottenibile con i pigmenti. Alcuni software possono produrre anche immagini tridimensionali. Una delle che differenzia questo tipo di pittura è la possibilità di cancellare parte di ciò che è già stato fatto e riprendere il lavoro. Deve essere chiaro che per fare arte con il computer bisogna avere molta padronanza di asso e del software grafico.


CONCLUSIONE.


Come abbiamo visto, la storia della pittura è fortemente legata alla evoluzione ed innovazione dei materiali. Attualmente l’arte ha una velocità evolutiva esasperata a tal punto che un pittore nascente vede brillare la sua stella non più di qualche mese, ma è anche vero che l’arte è fruibile da tutte le classi sociali. Qualcuno si era domandato se dopo la scoperta dei pigmenti di sintesi si sarebbe potuto scoprire qualche cosa di potenzialmente analogo, ed ecco arrivare i tubi a neon, rame, plastica… e la pittura digitale.



BIBLIOGRAFIA
Wikipedia
“I colori del nostro tempo” - Michel Pastoreau - editore Ponte alle Grazie
“Il piccolo libro dei colori” - Michel Pastoreau - editore Ponte alle Grazie
“Colore, una biografia” – Philip Ball – BUR Rizzoli
“Alchimie nell’arte” – Adriano Zecchina – Zanichelli
“Il significato dei colori nelle antiche civiltà” L.Luzzato e R. Pompas – Bompiani
“Storia dei colori” – Manlio Brusatin – Einaudi
“Arte moderna” – A.A.V.V. - Taschen